
Vangelo secondo San Luca 23,35-43
In quel tempo, [dopo che ebbero crocifisso Gesù,] il popolo stava a vedere; i capi invece deridevano Gesù dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto». Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell’aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Sopra di lui c’era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei».
Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L’altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».
L’autorità del dolore
Luis CASASUS Presidente delle Missionarie e dei Missionari Identes
Roma, 16 novembre 2025 | XXXIV Domenica del Tempo Ordinario
2Samuele 5, 1-3; Colossesi 1, 12-20; Luca 23, 35-43
La solennità di Cristo Re fu istituita da Papa Pio XI nel 1925. Questa festa fu la risposta del Santo Padre ai regimi atei e totalitari del suo tempo. Voleva che tutte le persone sapessero che Gesù è superiore a tutte le ideologie politiche e culturali che aspiravano a essere re in quel momento: fascismo, nazismo, comunismo, determinismo psicologico e materialismo pratico.
Nei tempi antichi, il re non era solo una figura cerimoniale, ma doveva esercitare una vera leadership, naturalmente nel governo, ma anche guidando l’esercito in importanti spedizioni militari. Di conseguenza, dimostrava il suo valore dando l’esempio, guidando il popolo e indicando la via, rischiando anche la vita. Si assicurava che il suo popolo avesse abbastanza da mangiare e che tutti vivessero in armonia. Per questo motivo, i re di quei tempi erano molto rispettati e avevano autorità assoluta, non solo in virtù del loro essere re, ma anche per la loro autorità personale.
Inoltre, come ci ricorda San Paolo nella Seconda Lettura, il re era fonte di unità per tutto il suo popolo. Egli è anche il capo del corpo: della Chiesa, ci dice oggi parlando di Gesù. La nostra esperienza missionaria ci dice come la testimonianza di un’autentica unità (qualcosa che nel mondo è fragile e volatile) conquista i cuori e apre le anime alla conversione. Per questo riconosciamo che lo Spirito Santo è l’unico agente capace di realizzare e mantenere la nostra unità. San Paolo esorta i credenti a impegnarsi a conservare l’unità dello Spirito attraverso il vincolo della pace (Ef 4, 3).
Creare divisione è facile; è persino la prassi di una nazione contro un’altra; è ciò che vogliono fare i gruppi di potere, e anche ciò che a volte vogliono i coniugi separati, che cercano di far sì che il figlio o la figlia rifiutino il padre o la madre. Cristo, sulla Croce, chiede e ottiene un’unione più profonda tra sua Madre e il discepolo Giovanni.
I leader e i potenti di questo mondo si circondano di guardie del corpo e si proteggono dagli avversari e dai nemici che inevitabilmente dovranno affrontare. Per questo, secondo la logica mondana, gridarono a Gesù: “Salva te stesso!”. Ancora oggi, molti si chiedono perché Dio non intervenga per impedire il male subito da vittime innocenti.
Regnare dalla croce è più di un simbolo; è una realtà che storicamente ha avuto inizio con la Passione e Morte di Cristo. Quando leggiamo il racconto evangelico della crocifissione, siamo spesso tormentati da domande: quella tortura era veramente necessaria? La nostra redenzione non poteva essere ottenuta attraverso un percorso non violento?… Dio Padre ci conosce intimamente e sa che siamo facilmente influenzati dalle nostre idee, dai nostri giudizi e dalle nostre preferenze. E questo ci porta a imporli agli altri in molti modi diversi, spinti dal desiderio di dominare tutto: persone, conversazioni, comunità e così via. Ricordiamo che un giorno Giacomo e Giovanni chiesero a Gesù: Concedici di sedere nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra (Mc 10, 37).
La Prima Lettura è un esempio del nostro desiderio duraturo e universale di imporre le nostre idee e i nostri desideri. Gli anziani delle tribù del nord si presentarono a Davide e lo unsero re su tutte le tribù d’Israele. Davide accettò, dando così inizio a un regno grande e potente. Ma dopo che Salomone gli successe sul trono, le tribù si separarono di nuovo e Israele tornò ad essere un popolo dominato dalle nazioni vicine. Quindi, il sogno degli Israeliti al tempo di Gesù era di ricostituire il grande regno di Davide, e questa era la loro preghiera costante a Yahweh.
Ora il punto non è giudicare il popolo d’Israele di quel tempo, ma riconoscere attentamente come questo stesso desiderio di controllo si manifesti in te e in me. Questo accade a noi in vari modi:
* Come preoccupazione costante: cerchiamo di anticipare tutti i possibili scenari per ridurre l’ansia.
* Con la nostra resistenza al cambiamento: cerchiamo di mantenere la routine e strutture rigide perché l’ignoto genera paura. Cerchiamo persino di aggrapparci ad alcune delle nostre abitudini (buone, cattive o neutre), al nostro paio di sandali, alla nostra tunica di ricambio, al nostro prezioso bastone da passeggio, quando diciamo di seguire Cristo.
* Esagerato bisogno di certezza: tendiamo a pretendere risposte chiare e rapide, anche in situazioni in cui l’ambiguità è inevitabile.
* Controllo sugli altri: questo può apparire come un desiderio di decidere per gli altri, imponendo opinioni o monitorando i comportamenti in modo diffidente, senza un genuino desiderio di istruire e aiutare.
* Difficoltà a delegare: crediamo che “nessuno lo farà meglio” e le responsabilità si accumulano, trascurando di formare gli altri, che è un compito più delicato e impegnativo che non sempre siamo disposti ad affrontare.
* Aspettative rigide: ci aspettiamo che gli altri agiscano secondo il nostro copione interno, il che genera frustrazione e impazienza aggressiva quando ciò non accade.
Il problema è che queste reazioni indeboliscono o annullano il nostro stato di orazione. Pertanto, la lezione di cui i nostri cuori induriti avevano bisogno doveva essere qualcosa di più di semplici parole, una testimonianza diretta e violentemente contraria alla nostra sete di essere i primi.
Questo è il potere della Croce di Gesù. È così che si manifesta l’onnipotenza divina, non scendendo dalla croce, come lo sfidarono a fare i magistrati e i soldati ignoranti. Il suo potere risiede nel fatto che non ci sono limiti al suo servizio e al suo perdono. Per questo si guadagna l’amicizia del ladrone Disma, che chiama Gesù per nome, come si chiama un amico. Ho sempre creduto che anche il secondo ladrone si sia arreso all’innocenza del Maestro, anche se il Vangelo non lo riporta.
In questi ladroni, vediamo come questa innocenza abbia avuto un profondo impatto, poiché uno di loro dice con convinzione al suo compagno, riferendosi a Gesù: “Quest’uomo non ha fatto nulla di male“. La stessa cosa accadde ai soldati che erano ai piedi della croce; il centurione romano, rappresentante del potere pagano, riconobbe l’innocenza e la divinità di Gesù e glorificò Dio, dicendo: “Veramente quest’uomo era giusto” (Luca 23, 47). Persino i più crudeli, coloro che deridevano Gesù nel mezzo della sua terribile sofferenza, riconobbero in Lui colui che aveva salvato altri.
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Abbondano esempi storici ed esempi intorno a noi, di come la sofferenza per la fedeltà alla verità rafforzi l’autorità di chi soffre. La credibilità di un profeta, di un apostolo, non risiede nell’apparente successo umano, ma nella sua perseveranza di fronte all’opposizione.
Sette secoli prima di Cristo, in un piccolo villaggio della Giudea, un giovane di nome Geremia udì una voce che lo travolse: “Prima di formarti nel grembo materno, io ti ho conosciuto, e prima che tu uscissi dal suo grembo, io ti ho consacrato“. Non era una voce qualsiasi; era la voce di Dio che lo chiamava a essere un profeta. Geremia tremò, perché sapeva che le parole che avrebbe dovuto proclamare non sarebbero state gentili, ma dure e difficili da accettare per molti.
All’inizio, la gente lo guardava con disprezzo. “Sei troppo giovane“, dicevano. Ma lui parlava di distruzione, di ingiustizia, di un Dio che non avrebbe più tollerato la menzogna. Le sue parole erano come un martello che colpisce la roccia. Ed è per questo che lo odiavano. Lo imprigionarono in umide segrete, lo picchiarono e lo accusarono di essere un traditore. Persino i suoi amici lo abbandonarono. Geremia pianse in silenzio, chiedendo a Dio perché lo avesse scelto per una missione così amara.
Tuttavia, ogni volta che cercava di rimanere in silenzio, sentiva un fuoco ardente dentro di sé, un fuoco che non poteva soffocare. «Dicevo a me stesso: “Non parlerò più nel suo nome”. Ma nel mio cuore c’era un fuoco ardente, rinchiuso nelle mie ossa, e mi affaticavo a contenerlo ma non potevo» (Geremia 20, 9). Quel fuoco lo spingeva ad alzarsi, a continuare ad annunciare, anche se il suo corpo era stanco e l’anima ferita.
Col tempo, la gente capì che quell’uomo sofferente non parlava per sé stesso, ma per Dio. Il suo dolore divenne autorità. Il suo pianto era genuino, la sua voce autentica. Geremia non fu ascoltato da tutti, ma la sua fedeltà lo rese testimone che la verità, anche quando fa male, è più forte della menzogna.
Durante l’Udienza generale dell’8 novembre, Papa Leone XIV ha presentato la figura del Beato Isidoro Bakanja, beatificato nel 1994 e nominato patrono dei laici del Congo. Nato nel 1885, quando il suo paese era ancora una colonia belga, non andò a scuola perché non c’era nel suo paese e divenne apprendista muratore. Strinse amicizia con missionari cattolici, monaci trappisti: gli parlarono di Gesù e, a vent’anni, decise di seguire l’istruzione cristiana e di ricevere il Battesimo.
Da quel momento in poi, la sua testimonianza divenne sempre più luminosa. Pur lavorando come bracciante agricolo per un padrone senza scrupoli che non tollerava la sua fede né la sua autenticità, rimase fedele a Cristo. Il padrone odiava il cristianesimo e i missionari che difendevano gli indigeni dagli abusi dei colonizzatori, ma Isidoro tenne al collo, fino alla fine, il suo scapolare con l’immagine della Vergine Maria, sopportando ogni tipo di maltrattamento e tortura senza perdere la speranza. Isidoro morì senza nutrire risentimento e pregando per i suoi persecutori.
Coloro che sono fedeli a Cristo, coloro che cercano di imitarlo nel servizio e nell’altruismo, forse non sempre “cambieranno la società”, ma saranno strumenti affinché, in ogni persona, prima o poi, ora o alla fine della propria vita, si compia il piano divino della redenzione. Questo è il trionfo del Regno dei Cieli. Ecco perché diciamo che la crocifissione è il momento più glorioso della vita di Gesù Cristo.
In questa linea, san Luca ci dirà qualche paragrafo dopo: Tutta la folla che era venuta a questo spettacolo, vedute le cose che erano successe, se ne tornava battendosi il petto (Lc 23,48).
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Nei Sacri Cuori di Gesù, Maria e Giuseppe,
Luis CASASUS
Presidente









