di p. Luis CASASUS, Superiore Generale dei missionari Identes
Europa, 25 aprile 2021 | IV Domenica di Pasqua
Atti 4, 8-12; 1 Giov 3, 1-2; S. Giovanni 10, 11-18.
Nel Vangelo di oggi, Gesù si riferisce ad una situazione ben conosciuta nel suo tempo. Molti contadini che dovevano fare tanto il lavoro agricolo come quello del pastore, si vedevano obbligati ad avere pastori salariati. Tra le responsabilità di questi ultimi si trovava l’obbligo di affrontare piccoli animali selvaggi, come una iena o un lupo, ma non si pretendeva che lottassero contro un ladro, e neppure contro un leone, uno sciacallo o un orso che a quell’epoca vivevano nella valle del Giordano.
In altre parole, il pastore salariato non era obbligato a dare la sua vita per le pecore.
Pensiamo a ciò: è chiaro che Cristo ci dice che il pastore che dà la sua vita per le pecore considera la loro vita più importante della sua. Non si tratta semplicemente di un lavoratore eccellente e responsabile, bensì di qualcuno che è disposto a soffrire gravi danni, o a morire, perché dà più valore alla vita delle pecore che alla sua. Non si limita a compiere un dovere. Non segue una legge, neppure una prudenza calcolata: che il leone si mangi una o due pecore ed il resto del gregge ed io saremo salvi. Il pastore del quale parla Gesù crede che la vita di una sola di quelle pecore sia più preziosa della sua.
Forse la pecora in questione potrebbe essere una pecora particolarmente imprudente e difficile. Una pecora che non è molto ubbidiente, né intelligente, che sta dando sempre problemi e che non è neanche molto redditizia, perché quasi sempre è malata. Davvero credo che la sua vita valga più che la mia?
Nella Prima Lettura di oggi, Pietro aveva appena curato un mendicante. La gente che era presente al miracolo rimase attonita, ma i governanti si offesero perché Pietro aveva detto che era Gesù che aveva curato l’uomo, lo stesso Gesù che essi avevano crocifisso.
Non c’è da sorprendersi che l’arrestassero! Quello era un modo chiaro di dare la vita, di permettere che si interrompessero i propri piani per salvare una persona. Benché la maggioranza di noi non viene incarcerata per aver fatto il bene, dobbiamo essere disposti a rinunciare a molti progetti personali, perfino generosi, per salvare una sola persona.
Come disse Papa Francesco, a Gesù, importa, soprattutto, arrivare a salvare i lontani, a curare le ferite dei malati e a restaurare tutti nella famiglia di Dio (15 febbraio 2015). Come ci ricorda spesso il Santo Padre, c’è una relazione intima tra il nostro essere pieni dell’amore di Dio ed il nostro desiderio di fare buone azioni per gli altri. Quanto più siamo pieni dell’amore di Dio, tanto più vorremmo corrispondergli, con doni di lode e doni di opere. A differenza di Pietro, è poco probabile che ci arrestino ed imprigionino per aver fatto opere buone in nome di Gesù. Ma, come successe a Pietro, le nostre buone azioni avranno sulla gente di oggi lo stesso effetto che ebbero sulla gente di allora. Scioglieranno i cuori delle persone. Li aiuteranno a credere che l’amore di Dio è reale e potente. Può essere che suscitino qualche opposizione, ma neppure quello diminuirà il potere della tua testimonianza.
Che cosa o chi sono le fiere che minacciano il gregge? In primo luogo e paradossalmente, come c’insegna Ezechiele, sono i cattivi pastori, quelli che cercano di approfittarsi del gregge in molti modi: per alimentare la loro fama, o per fare delle pecore uno strumento della loro ambizione:
Eccomi contro i pastori: chiederò loro conto del mio gregge e non li lascerò più pascolare il mio gregge, così i pastori non pasceranno più se stessi, ma strapperò loro di bocca le mie pecore e non saranno più il loro pasto (Ez 34, 10).
Così è come Gesù trovò il suo popolo: stanco e sfinito, come pecore senza pastore (Mt 9,36).
Quando parliamo di dare la vita per il prossimo, non dobbiamo pensare che sia un gesto solo di coloro che dirigono la Chiesa, né che sia un atto unico e straordinario nella nostra vita.
In primo luogo, Gesù non chiede a coloro che vogliono imitarlo nel suo modo di fare il bene, che imparino a fare miracoli o ad inventare parabole, ma che lascino tutto, come disse al giovane ricco e come Simone, Andrea, Giacomo e Giovanni fecero, abbandonando le loro reti.
In secondo luogo, l’ambizione umana è continua, inesauribile, come quella dei dirigenti corrotti di Israele. Non c’è limite all’approfittarsi degli innocenti in ogni momento col pensiero, la parola, l’opera e l’omissione.
Questo implica che dare la vita per le pecore dev’essere un atteggiamento continuo e permanente. Il rischio che siano sfruttate, ingannate e maltrattate non è occasionale, bensì costante. Ogni discepolo può avere un cuore di vero pastore e deve coltivare la generosità incondizionata del Maestro rispetto alle persone. Così come la carità non ha limiti, neppure l’hanno la fede e la speranza, per questo lo Spirito Santo prepara coloro che desiderano imitare il Buon Pastore con la sapienza per saper agire con una pecora sviata, la fortezza per perseverare nella sua difesa e la pietà per agire con l’intenzione di ricondurla al gregge dove possa vivere pienamente, con la compagnia di cui ha bisogno e così non morire nella solitudine.
Egli conosce la nostra voce e noi la sua. La nostra esperienza ci dice che, a poco a poco, al di sopra del rumore del mondo, impariamo a distinguere la sua voce, che ci dice esattamente quello che abbiamo bisogno di ascoltare (anche se forse non quello che volevamo). Ricordo un mio fratello mentre raccontava la sua esperienza in un campeggio di giovani. Il giorno della visita familiare, mentre i bambini lanciavano un mucchio di grida allegre, egli stava parlando con un paio di genitori quando, improvvisamente, uno di essi andò via e ritornò poco tempo dopo con suo figlio. Suo figlio era caduto e si era messo a piangere. Mio fratello lo guardò e gli disse: C’erano tanti bambini che stavano facendo rumore. Come sapevi che era tuo figlio quello che si era fatto male? Egli lo guardò e gli disse: Conosco la voce di mio figlio.
Gesù è il Buon Pastore che ci cura. Se ascoltiamo la voce di Gesù non ci perderemo. Ma, anche se ci perdiamo, Gesù ci viene a cercare.
Il sapersi amato è ciò che può muovere maggiormente il cuore di una persona all’amore. Questo spiega perché Cristo ci dia tante prove della donazione della sua vita, compresa la sua morte sulla Croce. Ma il Vangelo di oggi ci dà un segno permanente e sensibile che siamo amati: Cristo chiama ognuno di noi per nome.
Secondo gli apocrifi Atti di Pietro, egli fugge dalla crocifissione a Roma decisa dal governo, e durante il tragitto verso la periferia della città, incontra Gesù risorto.
Pietro gli domandò dove stesse andando (Quo vadis?). Gesù disse: Vado a farmi crocifiggere di nuovo. Pietro immediatamente tornò indietro, comprendendo che la croce sarebbe stata anche per lui. Pietro fu crocifisso a Roma nel 66 o 67. Dietro sua richiesta fu appeso alla croce a testa in giù.
Essere cosciente dell’amore che Cristo gli aveva manifestato personalmente, mostrando la sua disposizione a dare la propria vita davanti alla vigliaccheria di Pietro, lo spinse a tornare indietro e ad imitare il Maestro.
Questo è uno dei messaggi della Seconda Lettura di oggi, il dono gratuito della vita divina. La parola di Dio è sempre efficace; se chiama qualcuno figlio suo, questa persona si trasformerà realmente in un figlio. Nel linguaggio biblico, la filiazione implica la partecipazione alla vita di colui da cui si è stati generati. Così, il cristiano è, nel mondo, una presenza del divino e, come ogni figlio, riproduce la somiglianza e l’amore del Padre.
Gesù manifesta esplicitamente la sua intenzione di formare un solo gregge, cioè, di restaurare e promuovere l’unità perduta.
Osserviamo che noi esseri umani, per molto generosi e compassionevoli che siamo, non agiamo adeguatamente nei momenti di grave difficoltà, e soprattutto davanti ai segni di conflitto e disunione, rispondiamo con lentezza, e tipicamente in due modi differenti:
- Ignorando il problema o dandogli poca o troppa importanza. Possiamo utilizzare buone parole che raramente risolvono la situazione. Altre volte la nostra irritazione o malessere impediscono che si faccia la pace e si costruisca l’armonia. In realtà, tutti questi sono modi di elusione. Siccome le emozioni negative ci causano malessere ed angoscia, possiamo cercare di reprimerle, sperando che i nostri sentimenti si dissolvano col tempo.
- Condannare una delle parti ed ignorare le limitazioni della parte che scegliamo di appoggiare, mentre giustifichiamo la nostra preferenza dicendo, per esempio, che non condanniamo per una ragione personale, bensì per proteggere coloro che amiamo.
- Ma c’è una terza alternativa. Il modo di Cristo: Quando due persone pretendono di avere la ragione, di essere vittime l’una dell’altra, di essere state maltrattate o incomprese, come accadde con qualcuno degli Apostoli…. Cristo trovò il modo di dare la sua vita (in questo caso abbandonando la sua fama), lavando i piedi di tutti.
Uno dei casi più dolorosi di pecora perduta è quello di Giuda Iscariota. Giuda, seguace di Gesù, si rivoltò contro di lui solo per denaro, finendo col togliersi la vita per il rimorso. Tuttavia, Gesù celebrò la cena del Signore con Giuda a tavola. Non lo cacciò, ma gli diede l’opportunità di pentirsi. Le azioni di Gesù verso Giuda c’insegnano tre cose:
- Gesù non si allontanò dal conflitto. Lo affrontò direttamente con i fatti, e non solo con le emozioni.
- Diede a Giuda l’opportunità di riconsiderare le sue azioni e tornare a relazionarsi con Lui.
- Tutti conosciamo la fine della storia. Unire le persone richiede sempre che colui che costruisce l’unità sacrifichi qualcosa della sua vita, fisica, emozionale o in termini di progetti.
A questo rispetto, mi viene alla mente una storia molto conosciuta.
Un anziano soleva meditare la mattina presto sotto un grande albero sulla riva di un fiume. Una mattina, dopo avere finito la sua meditazione, l’anziano aprì gli occhi e vide uno scorpione che galleggiava indifeso nell’acqua. Quando lo scorpione si avvicinò all’albero, l’anziano si distese rapidamente su una delle lunghe radici che si ramificavano nel fiume, e stese la mano per salvare la creatura che stava annegando. Non appena la toccò, lo scorpione lo punse. Istintivamente, l’uomo ritirò la mano.
Un minuto dopo, recuperato l’equilibrio, tornò a stendersi sulle radici per salvare lo scorpione. Questa volta lo scorpione lo punse tanto forte con la sua coda velenosa che la mano si gonfiò e sanguinò ed il suo viso si contorse dal dolore.
In quel momento, un passante vide l’anziano steso sulle radici lottando con lo scorpione e gridò: Ehi, vecchio stupido, che ti succede? Solo uno stolto rischierebbe la sua vita per una creatura brutta e malvagia. Non sai che potresti morire cercando di salvare quell’ingrato scorpione? L’anziano voltò la testa e, guardando negli occhi lo sconosciuto, gli disse con calma: Amico mio, il fatto che la natura dello scorpione sia pungere non cambia la mia natura di salvare.
Il Vangelo di oggi finisce con l’inaspettato, ma inappellabile paradosso della Prima Lettura: Cristo è la pietra angolare sorprendentemente respinta dai costruttori e la sua morte, la nostra morte, è la strada altrettanto sorprendente verso la vita piena: il destino di chi dà la vita non è la morte, bensì la pienezza della vita. San Pietro ci ricorda che non dobbiamo esaurirci inutilmente cercando altre verità, altri affetti, altre sensazioni estranee allo Spirito del Vangelo: In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati. (At 4, 12)