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di p. Luis CASASUS, Superiore Generale dei missionari Identes.
New York, 5 luglio 2020 | XIV Domenica Tempo Ord.

Zaccaria 9, 9-10; Lettera ai Romani 8, 9.11-13; S. Matteo 11, 25-30

Tanto se si è credenti come se non lo si è, dobbiamo essere d’accordo che quello che dice Cristo è molto, molto provocante ed originale. 

I bambini erano le persone meno importanti nel mondo antico, quelli che non contavano nulla. Questo può essere difficile da immaginare poiché, oggi, in alcune società moderne, i bambini ricevono ogni tipo di attenzioni, perfino ristoranti disegnati per il loro piacere e in loro onore. Quello non era il mondo nel quale visse Gesù. La maggioranza degli studiosi è convinta che questa sia la prima ed unica volta nell’antica letteratura giudaica (forse in tutta la letteratura antica) nella quale un bambino è usato come esempio positivo. Qui, quello che Gesù fa è originale e radicale. 

L’affermazione di Gesù è tanto sorprendente oggi come lo fu allora. Ai nostri giorni, gli psicologi parlano del carattere o comportamento infantile come di qualcosa di negativo, indicando la qualità impetuosa ed impulsiva dei capricci infantili o le stizze narcisiste. O una necessità infantile, dipendenza e timore dell’abbandono. O un’irresponsabilità ed un rifiuto rivolto al diventare adulto. 

Più ancora. Molti hanno un’esperienza abbastanza triste dei loro anni d’infanzia. Non è facile per essi identificarsi con quello che c’è di positivo nel modo di essere di un bambino. 

Ma Cristo c’invita a contemplare qualcosa che è presente in tutti i bambini, perfino in quelli che non sono stati fortunati nella loro infanzia. Sono due qualità che permettono di crescere ed aprirsi a Dio e al prossimo: L’innocenza e la fiducia

Essere innocente (che non equivale ad essere ingenuo) ci dà una forza impressionante, capace di commuovere chiunque. L’innocenza trionfa sulla morte. Pilato riconobbe l’innocenza di Cristo, come pure i testimoni della morte di Santo Stefano. Erode vide chiaramente l’innocenza di San Giovanni Battista. Lo stesso Giovanni Battista presenta Cristo col segno dell’innocenza: Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo! (Gv 1, 29). Cioè, dotato di un’innocenza capace di redenzione. 

L’innocenza si manifesta nella purezza d’intenzione. Siccome tutti abbiamo intenzioni non tanto pure, più o meno coscienti, più o meno incoscienti, facilmente scopriamo quell’innocenza che ci commuove e si rivela come un segno della presenza di Dio nell’anima innocente. 

Alcuni di noi ci presentiamo come guide di ciechi, come luce per coloro che sono nelle tenebre, come educatori degli ignoranti, come maestri dei semplici (Rm 2, 18-20). Finché non rinunceremo alla nostra pretesa di essere persone sagge ed intelligenti, rendiamo impossibile la vera e gratificante esperienza dell’amore di Dio. 

Quando guardiamo Gesù, ci sorprendiamo non solo per la sua forza ed il suo fuoco, bensì soprattutto per la sua innocenza, un agnello puro ed innocente che non ha mai peccato. I nostri atteggiamenti centrati nell’uomo e negli stili di vita deboli mescolati con le attenzioni di questa vita ed il desiderio delle cose del mondo… non sono innocenti come Lui. Mentre dibattiamo sul fatto se usare libri di inni o una lavagna luminosa, e mentre ci dividiamo sulla scelta del colore del nuovo tappeto ed altre dispute tonte, il mondo muore di fame per non sentire la realtà di Dio che desidera mostrarci il cuore puro ed innocente di Cristo. 

Tuttavia, dobbiamo ricordare che Egli dichiara esplicitamente: Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe. (Mt 10:16). 

C’è una storia dei Padri del Deserto, quei monaci che passarono le loro vite dedicati a Dio e alla comunità. 

Un giorno, alcuni ladri entrarono in una delle celle di un anziano e gli dissero che erano venuti a portar via tutto quello che aveva. L’anziano disse: Prendete tutto quello che volete, figli miei. Cosicché presero tutto quello che poterono trovare nelle borse e cominciarono ad andare via. L’anziano vide che avevano lasciato un piccolo pacco nascosto alla loro vista, lo raccolse e li inseguì dicendo: Figli miei, prendete anche questo, lo avete dimenticato, era nascosto nella mia cella! I ladri furono tanto sorpresi che gli restituirono tutto, dicendo: Questo è realmente un uomo di Dio. 

Questa ultima frase: è un uomo di Dio, deve ricordarci che l’innocenza evangelica non è qualcosa che possiamo ottenere con i nostri soli sforzi, bensì una grazia molto particolare che tocca a noi accogliere ed accettare. 

Essere come bambini significa avere gli occhi ed il cuore aperti alla meraviglia e alla verità. Essere puerile significa essere chiuso e rimanere arrogante ed ostinato. 

Queste sono le parole del Papa Francesco parlando di innocenza e fiducia, nella sua famosa e affollata visita alle Filippine: 

Essere figli di Dio significa essere come bambini. Non come bambini che non vogliono crescere, piuttosto per mantenere un senso dell’innocenza infantile che tutti i bambini hanno prima di diventare maliziosi e cinici come gli adulti. Le qualità infantili come la fiducia e l’innocenza sembrano essere la chiave per abbracciare le nostre identità come figli di Dio. 

La fiducia nel Signore nasce dalla dipendenza di Dio per tutte le cose. Questa povertà spirituale che si descrive nella prima beatitudine è la forma in cui molti bambini piccoli si relazionano con i loro genitori. Un bambino non ha un’altra opzione che dipendere dai suoi genitori o dagli adulti e questo fa sì che si fidino dei loro anziani. Anche noi abbiamo bisogno di relazionarci con Dio in questo modo, per ricordare che tutto quello che abbiamo sono doni di Dio e che poco possiamo fare per conto nostro. 

L’altra qualità infantile è l’innocenza. Vedere il mondo attraverso gli occhi di un bambino, con un senso di stupore per la bellezza della creazione di Dio. Possiamo avere un po’ di fastidio per quello che sembra tanto ‘ordinario’   tutto il tempo e dimenticarci di cercare di incontrare Dio in tutte le cose. Dobbiamo cercare di toglierci questi paraocchi e vedere il mondo come Dio lo creò. 

Vivere come figli di Dio significa cercare di collegarci con Dio in quel modo. Vedere oltre l’apparente sapienza del mondo per vedere la sapienza di Dio. Ricordare di non essere pieni di noi stessi, bensì di permettere che Dio sia Dio nelle nostre vite. Essere come Gesù, chiamare Dio nostro Padre, innocenti e fiduciosi, come veri figli di Dio (18 gen 2015)

Anche la seconda parte del testo del Vangelo di oggi è paradossale: Cristo ci offre sollievo da quello che ci opprime, non eliminando il problema che ci affligge, bensì mediante un nuovo giogo. 

Gesù si riferì agli scribi ed i farisei come uomini che “si siedono sulla sede di Mosè”. I farisei reclamavano l’autorità di Mosè come interpreti e maestri della Legge, il che significava che esigevano anche che tutti gli israeliti che si sottomettevano a Mosè si sottomettessero anche a loro. 

Poi, avvisò la gente dei modi oppressivi e legalisti dei farisei. Disse: Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente (Mt 23, 4). Si riferiva al modo in cui avevano nascosto il vero significato della Legge dell’Antico Testamento sotto tutte le regole e regolamenti religiosi che questi religiosi esterni avevano istituito come il cammino verso Dio, verso la vera spiritualità, e come un modo di ricevere la benedizione di Dio nella vita. Il saggio Sirac raccomandò a suo figlio: Introduci i tuoi piedi nei suoi ceppi, il collo nella sua catena. Piega la tua spalla e portala, non disdegnare i suoi legami […] Alla fine troverai in lei il riposo, ed essa ti si cambierà in gioia. (Sir 6, 24-28), ma la religione predicata dai maestri dell’Israele l’aveva trasformata in un giogo oppressivo. 

Gesù conosce la natura umana. Quando Gesù dice che il suo giogo è “dolce”, significa che è adatto a noi. I gioghi erano fatti su misura affinché si adattassero bene ai buoi. È fatto su misura per ognuno di noi e, inoltre, Egli sta sempre lì con noi per portare il peso. Quando Gesù c’invita a metterci il suo giogo, ci sta chiedendo che consegniamo le nostre vite al Padre così come Lui consegnò la sua vita. 

Possiamo fidarci di Lui perché non nasconde nessun segreto e perché parla della sua esperienza. Ovviamente, per avere fiducia in una persona, dobbiamo conoscerla bene, direttamente. Questo è la grande gioia della nostra fede. Non stiamo dicendo che conosciamo Dio per deduzione o per qualche ragionamento intellettuale basato sulle opere della creazione, ma che conosciamo personalmente Dio. Questo è quello che rende il cristianesimo differente da altre religioni, perché in Gesù conosciamo Dio in persona. 

Il verbo conoscere nella Bibbia non significa avere conosciuto o contattato una persona varie volte. Significa “avere avuto una profonda esperienza di quella persona”. 

Questo è quello di cui abbiamo bisogno. Questa è la chiave per la nostra completa consolazione ed allegria. Quando doniamo le nostre vite al Padre e facciamo la sua volontà, troviamo pace ed il peso diventa leggero perché non siamo più ansiosi o lottando con Dio. Il suo giogo è dolce perché solo quelli che accettano la sapienza delle Beatitudini possono sperimentare l’allegria e la pace. 

Egli sa che abbiamo bisogno di aiuto divino continuo e questo si manifesta in due modi differenti che ha esposto nelle Beatitudini. 

In primo luogo, quando ci riconosciamo come peccatori, piangiamo i nostri peccati: Beati quelli che piangono, perché saranno consolati. Secondo, quando ci sentiamo incapaci di fare il bene che ci piacerebbe fare: Beati i poveri di spirito perché di essi è il Regno dei Cieli. 

Uno dei momenti del Vangelo dove si semplifica questa fiducia è il momento in cui un lebbroso si avvicina a Gesù dicendo: «Signore, se vuoi, tu puoi sanarmi». (Mt 8, 2). I lebbrosi non soffrivano solo il dolore fisico, ma anche l’impossibilità di sviluppare la loro vita, di fare il bene alle loro famiglie e alla società, di partecipare alla preghiera comunitaria, perfino di trasmettere agli altri la consolazione e la pace. Qualcosa di impossibile in quella condizione. È la fiducia, dove la fede e la speranza si incontrano e si produce la risposta divina. Le parole del lebbroso equivalgono a dire: Non ho nessun dubbio che hai la capacità di curarmi. E, inoltre, so che vuoi farlo e che lo farai. 

Questo è tanto drammatico e paradossale come il quadro elaborato nella Prima Lettura. Questa profezia fu annunciata quando Israele era una nazione insignificante, sfruttata ed oppressa da potenze straniere. In quelle condizioni, il paese è invitato a rallegrarsi e giubilare perché viene un re giusto e vittorioso ed inaugurerà un’era di pace e prosperità. 

Ma la realtà sarebbe stata molto differente: Gesù, il re annunciato, non verrà alla testa da un forte esercito, montando cavalli di fuoco, conducendo carri, schiacciando i nemici fatti prigionieri, ma entrerà a Gerusalemme mite, seduto su un’asina, con un puledro figlio di bestia da soma (Mt 21, 5)La sua forza è quella che la gente considera debolezza. 

Il suo giogo è leggero. In primo luogo, perché è suo; non nel senso che lo ha imposto, bensì perché lo ha portato lui per primo. Gesù si inclina sempre alla volontà del Padre. L’abbracciò liberamente mentre non impose precetti umani (Mc 7). Infine, Gesù conclude col consiglio che ci permette di portare il nostro giogo con pazienza ed allegria: imitare Lui che è mite ed umile di cuore.