di p. Luis CASASUS, Superiore Generale dei missionari Identes.
New York/Parigi, 13 dicembre 2020 | Terza Domenica di Avvento
Isaia 61, 1-2a.10-11; 1 Tes 5, 16-24; Giovanni 1, 6-8.19-28.
Le tre Letture di questa domenica fanno tutte eco al tema dell’allegria.
La profondità della gioia nel momento della celebrazione dipende molto da quanto ci siamo preparati a questo. D’altra parte, nello stesso atto della preparazione, già stiamo entrando nell’allegria della celebrazione.
Ricordo un detto che mia nonna era solita ripetere: Il meglio della domenica è il sabato sera.
Questa è una delle ragioni per cui la Chiesa c’invita a vivere l’Avvento come un tempo di serenità, per poter apprezzare, in tutta la sua grandezza, l’arrivo di Cristo che celebriamo a Natale.
Tutti comprendiamo che l’allegria spirituale non è la stessa allegria di questo mondo, benché a volte vadano unite. Ma è fondamentale capire bene da dove viene l’allegria che vive un discepolo di Gesù.
Questa famosa storia si racconta di San Francesco d’Assisi che viaggiava col suo assistente, Fratello Leone. Era inverno ed entrambi tremavano di freddo. Francesco chiamò Leone: Fratello, se fosse per piacere a Dio che i frati dessero, in tutte le terre, un grande esempio di santità ed edificazione, scrivi, e nota accuratamente, che questa non sarebbe la perfetta allegria.
Un po’ più avanti, Francesco aggiunse: Fratello Leone, se i frati facessero camminare gli zoppi, se raddrizzassero i curvi, cacciassero i demoni, dessero la vista ai ciechi, facessero sentire i sordi, parlare i muti e, quello che è ancora più importante, se resuscitassero i morti dopo quattro giorni, scrivi che questo non sarebbe la perfetta allegria.
Infine, dopo varie miglia, Fratello Leone si interrogò molto dentro di sé, e poi disse: Ti prego, insegnami in che cosa consiste la perfetta allegria.
Francesco rispose: Se quando arriviamo a destinazione, tutti inzuppati per la pioggia e tremando di freddo, coperti di fango ed esausti per la fame; se quando bussiamo alla porta del convento, il portinaio si irrita e ci domanda chi siamo; se dopo avergli detto: “Siamo due dei fratelli”, risponde arrabbiato: “Quello che dici è una menzogna. Siete due impostori che vanno di qua e di là ad ingannare il mondo chiedendo elemosina ai poveri; fuori!”.
Se poi si rifiuta di aprirci e ci lascia fuori, esposti alla neve e alla pioggia, soffrendo freddo e fame per tutta la notte, allora, se accettiamo una tale ingiustizia, una tale crudeltà e disprezzo, con pazienza, senza irritarci e senza mormorare, credendo con umiltà e carità che il portinaio ci conosce veramente, e che è Dio che lo fa parlare così contro di noi, scrivi, Fratello Leone: Questa è la perfetta allegria.
In questo caso, l’allegria non è un’emozione di estrema felicità, bensì una grazia di Dio che dà forza e pace. Questo è uno dei frutti del rinnovamento che lo Spirito Santo produce in noi, come ci annuncia oggi San Giovanni Battista: Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco (Lc 3, 16). Il battesimo di Giovanni Battista produce il perdono dei peccati. Il battesimo cristiano porta con sé la venuta dello Spirito Santo. In ultima istanza, così è come ci viene permesso d’essere, come Giovanni Battista, testimoni di Cristo: Lo spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di misericordia del Signore (1ª Lettura).
La Perfetta Allegria è essere tanto radicati nell’eternità che niente in questa vita può distrarci dalle realtà eterne. È avere una relazione interiore tanto forte con Gesù, essere tanto sicuri in una conoscenza sperimentale del suo amore, da sapere che il suo amore è sufficiente. San Paolo ci dice nella sua Lettera ai Romani che niente può separarci dall’Amore di Dio che è stato versato nei nostri cuori dallo Spirito Santo. Questa Perfetta Allegria porta la libertà, una libertà per vivere pienamente in questa vita non limitata da nessuna paura; per esempio, la paura di cosa vestire o mangiare, la paura di chi ci curerà, la paura di quello che gli altri possano pensare, o di quello che gli altri ci possano fare.
Abbiamo imparato dal nostro Padre Fondatore e dalla nostra esperienza che l’autentica allegria spirituale (beatifica) è misteriosamente legata al dolore. Questo non ha niente a che vedere col masochismo o con il comportamento autodistruttivo. Al contrario, si tratta della sicurezza di sapere che Dio realizzerà qualcosa di positivo con quello che è più doloroso per noi.
Non si tratta semplicemente di ricevere una qualche “forza per resistere”, ma si produce, positivamente, una gioia dentro di noi, propria di chi sa che la Provvidenza si occupa di tutto. Sentire quella brezza (Espirazione) dello Spirito Santo genera una pace che ci spinge (Aspirazione) e mette in moto i nostri talenti e capacità, il che si manifesta spesso in nuove forme di vivere le virtù (Regime Morale).
Lo sguardo del profeta va molto oltre gli stretti orizzonti della miseria umana. Perfino nella situazione più drammatica, invita a crescere in allegria e speranza, basandosi sulla certezza che Dio sta compiendo a poco a poco il suo piano per il mondo.
Questo spiega perché, come ci consiglia oggi San Paolo, dobbiamo ringraziare continuamente. Una delle ragioni è che, al di là della cortesia, col sentimento di gratitudine e con il desiderio di esprimerla, aumentiamo gradualmente la nostra sensibilità e la nostra capacità di essere coscienti dell’arrivo di nuove grazie.
Dal punto di vista dell’educazione, anche ad un bambino viene insegnato immediatamente di ringraziare, e questo succede spontaneamente, quasi istintivamente in tutte le culture. Di fatto, la gratitudine riduce una moltitudine di emozioni tossiche, dall’invidia e dal risentimento fino alla frustrazione e al rimorso. Fortifica la relazione tra le persone e a volte la genera, perché rompe barriere e distanze. La raccomandazione di San Paolo è molto opportuna, poiché la nostra tendenza è ringraziare solo in certe occasioni, non in modo permanente; ma farlo continuamente è un modo sicuro di unirci con Dio. Quando siamo grati, diventiamo anche più generosi. Cominciamo a condividere con gli altri quello che abbiamo ricevuto.
Normalmente ci succede come a quel cacciatore che si perse nel bosco. Dopo alcuni giorni senza poter mangiare, l’uomo affamato scorse un melo solitario. Era euforico mentre strappava la frutta e ringraziò profusamente Dio. Inghiottì la prima mela sugosa e continuò a mangiare una mela dopo l’altra. Ma dopo avere mangiato le prime, la sua allegria cominciò a diminuire e quando arrivò alla decima, si sentì frustrato di avere solo mele da mangiare. La decima era tanto saporita come la prima. Ma il cacciatore era stufo di troppe cose buone. Non riconobbe che le mele lo mantenevano vivo e gli davano la forza per trovare un’uscita dal bosco.
La gratitudine è una scelta, ma può trasformarsi in un’abitudine. Quando impariamo a praticare coscientemente la gratitudine per le situazioni, le persone e le risorse che ci circondano, otteniamo una vita più felice e migliori relazioni. La cosa più importante è che posso rendermi conto, e non dimenticare, di come Dio mi perdona ogni giorno, dandomi come prova del suo perdono il potere di partecipare al compito del suo regno e – a volte – una prova visibile di essere un umile strumento nel suo piano di salvezza. E questa è una fonte di profonda allegria. Per questo Gesù disse: «Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Vi dico che molti profeti e re hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, ma non lo videro, e udire ciò che voi udite, ma non l’udirono» (Lc 10, 23-24)
Prima di ciò, i suoi discepoli furono inviati a proclamare il Vangelo. E quando ritornarono pieni di emozione e gioia, dicendo: «Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome» (Lc 10, 17), Gesù Cristo disse loro: «…Non rallegratevi perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto che i vostri nomi sono scritti nei cieli» (Lc 10, 20).
Gesù c’insegna il valore della gratitudine e quanto spesso la dimentichiamo o la diamo per scontata nelle nostre vite. Dieci furono guariti, non è così? Dove sono gli altri nove? Troppo spesso ci fissiamo su quello che ci manca e dimentichiamo di ringraziare Dio per le benedizioni ricevute.
La mia impressione personale è che solo le persone di orazione sono grate a Dio, perfino nei momenti più difficili. Per esempio, quando all’erudito biblista inglese Matthew Henry (1662-1714) rubarono il portafoglio e si mise a riflettere sull’incidente, disse che aveva quattro motivi per ringraziare Dio.
In primo luogo, era grato che l’uomo non lo avesse mai derubato prima. Poi era grato che, benché l’uomo gli avesse portato via il portafoglio e gli avesse causato un danno, non gli aveva tolto anche la vita. Inoltre, benché l’uomo gli avesse preso tutto quello che aveva, non c’era molto in quel portafoglio. E infine, ringraziò Dio di essere lui il derubato e di non essere il ladro.
Dopo avere letto le consolatrici promesse di Isaia nella Sinagoga di Nazaret, Gesù proclamò solennemente: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi» (Lc 4, 21). Era l’annuncio che il giorno atteso per secoli era arrivato. Fu il giorno che indicò la fine di ogni schiavitù, miseria e dolore. Tuttavia, la profezia non si compì pienamente, neanche ai tempi di Gesù.
Ma il dono della profezia ci dà un nuovo sguardo per vedere il mondo in modo differente e percepire, già all’alba, lo splendore di tutto il giorno. Come i profeti, Gesù guardava anche davanti a sé e contemplava il nuovo mondo, già pienamente realizzato, dove non ci saranno più né lutto, né lamento (Apocalisse 21, 4).
Per questo motivo il Vangelo presenta il Battista come l’uomo inviato da Dio per dare testimonianza della luce. Ha una missione tanto importante che, in soli due versetti, viene menzionato tre volte. Durante l’Avvento ci viene proposta la sua testimonianza. Quelli che lo seguono non cammineranno nelle tenebre, ma avranno la luce della vita (Gv 8, 12).
Anche il Battista ha fatto un viaggio di fede. È da sottolineare che, pur essendo un parente di Gesù, dicesse: «Io stesso non lo conoscevo. …Sì, l’ho visto e ho reso testimonianza che questi è il Figlio di Dio» (Gv 1, 31-34).
Questo viaggio spirituale si riproduce nella vita di ogni credente. Comincia con la scoperta della vera identità di Cristo. Poi, tra dubbi e tentazioni, si arriva alla convinzione che merita una fede piena. Infine, ognuno si trasforma in testimone della sua fede: Anche noi crediamo e perciò parliamo (2 Cor 4, 13).
Il Battista fu capace di aprire gli occhi di alcuni dei suoi contemporanei. In questo tempo di Avvento, rivolge ad ognuno di noi un invito a riconoscere Gesù come l’unica luce e ad evitare il cammino dei malvagi che è l’oscurità totale (Pro 4, 19).
Permettetemi di finire con alcune parole del Papa, tratte dalla sua enciclica Fratelli Tutti, dove ci dà una sentita ed intima lezione di gratitudine verso due donne che Dio ha posto sulla sua strada. Scrivendo del suo polmone malato, il Papa dice: “Ricordo la data: 13 agosto 1957. Fui portato all’ospedale da un prefetto di seminario che si rese conto che la mia non era il tipo di influenza che si tratta con l’aspirina. Immediatamente tirarono via un litro e mezzo di acqua dal polmone, e rimasi a lottare per la mia vita”. Era al suo secondo anno in quel seminario e fu la sua “prima esperienza di limite, di dolore e di solitudine”, dice. “Cambiò il mio modo di vedere la vita”.
“Per mesi non sapevo chi ero e se sarei sopravvissuto o sarei morto. Neanche i medici avevano idea se ce l’avrei fatta”, scrisse il Papa. “Ricordo avere abbracciato mia madre ed averle detto: ‘Dimmi solo se morirò”. Dopo tre mesi di ospedale, “mi operarono per togliere il lobo superiore destro di uno dei polmoni. Ho un’idea di come si sentono le persone con coronavirus quando lottano per respirare con i respiratori”.
Una delle infermiere, suor Cornelia Caraglio, mi salvò la vita raddoppiando gli antibiotici, dice. “A causa del suo contatto frequente con i malati, aveva imparato meglio dei medici a sapere quello di cui avevano bisogno, ed ebbe il coraggio di agire in base alle sue conoscenze”.
Imparò anche da una suora che l’aveva preparato per la sua prima comunione e che ringraziò profondamente, perché veniva a prendergli la mano, la cosa importante era sedersi con la persona, toccarla e mantenere le parole al minimo.