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Vangelo e riflessione

Era già mattina quando lo crocifissero

By 22 Marzo, 2018No Comments
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di p. Luis Casasús, Superiore Generale dei Missionari Identes
Commento al Vangelo dell 25-03- 2018 Domenica delle Palme (Isaia 50, 4-7; Lettera ai Filippesi 2, 6-11; Marco 14, 1-72.15, 1-47)

Alcuni giorni fa ebbi un’esperienza commovente. Un giovane che aveva passato alcune difficoltà, arrivò con una sola preoccupazione: Come può essere che la maggioranza dei giovani stia lontano da Dio; Come possiamo aiutarli a trovarlo? Questo giovane era grato, riconosceva che Dio l’aveva aiutato ad entrare in una nuova tappa della sua vita e gli sarebbe piaciuto che anche altri beneficiassero del piano perfetto che Dio ha per i loro giorni.

Questa è l’atmosfera che si respira nella prima parte del Vangelo di oggi, quando la gente si riunì spontaneamente per dare il benvenuto all’uomo che aveva fatto bene a tanti suoi compatrioti.

La prima osservazione importante è che gridarono: Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Avevano ragione; Egli non è altro che l’unico Figlio del Padre. Come abbiamo letto martedì scorso: «… saprete allora che Io Sono e non faccio nulla da me stesso, ma come mi ha insegnato il Padre, così io parlo. Colui che mi ha mandato è con me e non mi ha lasciato solo, perché io faccio sempre le cose che gli sono gradite»(Gv 8, 28-29).

Cristo non è solo un profeta, non è solo un Maestro o un “artefice di miracoli”. In ultima istanza, quello che vediamo è la sua unione col Padre e la cosa più potente della sua rivelazione per noi è la sua filiazione divina, la sua condizione di figlio. Gesù è essenzialmente figlio. Figlio di Dio, ma in un modo che ci permette anche di vederlo come uomo. Questo non è solo un tema accademico: la nostra risposta all’identità di Gesù determinerà se siamo salvati o no, se parteciperemo ora al suo regno o no. La forma e profondità della nostra fede in Gesù definirà la forma in cui viviamo le nostre vite. Col centurione, diciamo: In verità, costui era il figlio di Dio.

Forse possiamo cadere nello stesso tranello dei contemporanei di Gesù. Le loro grida di acclamazione si trasformarono rapidamente in grida di condanna; la loro promessa di fedeltà a Gesù, fu rimpiazzata dall’abbandono e dalla negazione di averlo conosciuto. Il loro impegno di solidarietà con Gesù fu seppellito dall’amor proprio, e la loro dichiarazione d’amore si trasformò in tradimento. La moltitudine non andò con Lui alla croce.

Nelle prove e nelle difficoltà, alcuni di noi possiamo sentire che Dio ci ha abbandonato. Quando vediamo che i nostri problemi non hanno fine, siamo propensi a perdere la speranza in Dio. Alcuni, perfino, siamo risentiti con Lui perché non ha cura di noi e, durante il cammino, perdiamo la nostra direzione nella vita a motivo delle difficoltà o delle sfide che ci sembrano troppo grandi per noi. Inoltre, come è successo alla moltitudine che dava il benvenuto a Cristo, quando siamo sotto pressione a causa delle nostre passioni, principalmente la paura e l’attaccamento alla nostra fama, tendiamo ad auto-proteggerci: Sì, sarò obbediente per il resto della mia vita. Ma realmente, la gente deve pensare molto bene di me, perché sto facendo questo. Devo avere qualcosa come gratificazione dell’ego. Devo essere lodato per essere speciale, per il molto che mi sto sacrificando.

Siamo grati perché realmente possiamo condividere il regno dei Cieli. Sì, Gesù è un Re e c’è un modo molto preciso nel quale Egli esercita il suo potere. Un esempio dei nostri giorni?

Tanti anni fa, un sacerdote rumeno di 70 anni fu imprigionato per la sua fede. Tuttavia, prima di essere imprigionato, fu torturato e colpito tanto duramente che stava già per morire. Quando giaceva nella prigione moribondo, successe che il suo torturatore, l’uomo che l’aveva colpito quasi fino alla morte, ebbe serie difficoltà coi suoi capi, e anch’egli fu bastonato duramente e dopo portato in prigione. Il testimone di questa storia racconta come fosse seduto nella cella della prigione, precisamente col sacerdote mezzo morto, alla sua destra, ed il torturatore, anch’egli mezzo morto, alla sua sinistra. Man mano che passavano le ore ed il torturatore si avvicinava alla morte, continuava a gridare per il suo dolore fisico, ma si lamentava a voce alta anche per tutto il male che aveva commesso nella sua vita. Disse che nessuno poteva perdonarlo per le cose terribili che aveva fatto.

Allora il sacerdote che stava ascoltando, chiamò alcuni giovani affinché lo alzassero, perché era troppo debole per camminare. Lo portarono a fianco del nuovo prigioniero. Si sedette vicino al suo torturatore, l’abbracciò, accarezzò il suo viso deformato e cominciò a parlargli dell’amore e della misericordia di Dio. Gli disse che lo aveva perdonato, nonostante gli avesse fatto tanto male. Egli gli assicurò che tutti i cristiani, che questo uomo che aveva torturato l’avevano perdonato e che ora l’amavano. E dopo disse: Immagina, se ti amiamo e ti perdoniamo noi, quanto più ti ama Dio ed anela abbracciarti e consolarti.

Il torturatore era così commosso per le azioni e le parole del sacerdote, che cominciò a piangere ancora di più e cominciò a confessare tutti i suoi peccati a quel sacerdote. Immaginiamo, un uomo vicino alla morte, che ascolta la confessione del suo stesso assassino e gli racconta il grande amore e misericordia di Dio. Si tratta di un amore divino che può venire solo da Dio stesso.

È il potere dell’amore che dà speranza agli altri. Il potere dell’amore che perdona il più grande dei mali. Il potere dell’amore che può ricreare le persone. Questo amore incondizionato, sacrificale e davvero divino apre una fonte interminabile di energia nelle nostre vite. In particolare, possiamo curare molti tipi di ferite resistenti con le nostre proprie ferite: Per le sue ferite siamo stati guariti (Is 53, 5).

Di fatto, durante la sua Passione, Gesù curò l’orecchio del servo del sommo sacerdote che fu ferito nel Getsemaní e mise rimedio anche all’inimicizia tra Erode e Pilato. Questi due casi (miracoli) sono particolarmente significativi, perché il marchio distintivo della carità, la sua prova del fuoco, è la convivenza, e Gesù dimostrò che era capace di restaurarla perfino nelle circostanze drammatiche della sua Passione. L’amore per il prossimo, (la persona che ci sta fisicamente vicino, nel mio istituto religioso, nella parrocchia, a tavola) è la prova della crescita nella nostra orazione.

La convivenza è la capacità di condividere ogni volta più cose, un numero crescente di eventi nella mia vita: allegrie, tristezze, sogni, piccoli avvenimenti quotidiani. A volte dimentichiamo che la convivenza è un’esperienza fondamentale e coloro che non hanno avuto l’opportunità di condividere le loro cose più profonde ed intime, perfino le loro piccole sfide giornaliere, non possono essere recuperati completamente. A nessuno piace stare solo. Come disse Marcel Proust, un solipsista è qualcuno che non può lottare con la delusione di essere ignorato. Perfino quel supremo solitario, Nietzsche, desiderava che le altre persone comprendessero il suo lavoro. Il vero discepolo di Cristo è colui che può lavorare con gli altri senza volerli dominare o competere con essi. Non è sorprendente che l’Eucaristia sia l’atto centrale della nostra liturgia, perché rende visibile la nostra convivenza con gli altri e con Dio, in Cristo.

Siamo religiosi, nel senso originale della parola, nella misura in cui cerchiamo di riprodurre in noi stessi le caratteristiche dell’unione di Cristo con nostro Padre Celeste, imitando il suo atteggiamento verso nostro Padre. Questo è l’inizio dell’orazione unitiva, per la quale Dio prega in noi e noi diventiamo sempre di più simili a Lui.

La prima lettura descrive, in una maniera vigorosa ed abile, questa trasformazione, che non è un premio per coloro che hanno più meriti, bensì una grazia per potere continuare a compiere con successo la nostra missione, la quale è sempre nuova e ogni volta più esigente: Il Signore viene in mio aiuto: per questo, non sono stato confuso; ho indurito il mio viso come la selce, e so molto bene che non sarò defraudato. Siamo resi capaci di essere veramente liberi per Dio. Quando ci arrendiamo alla Sua volontà e alla Sua grazia, sperimentiamo che Egli ci eleva al punto più alto come fece Gesù. In mezzo alla nostra impotenza e miseria, siamo sicuri della vittoria finale.

Questa è il modo in cui ci trasformiamo in ambasciatori di Cristo, come piace dire a San Paolo. Come si domandava un religioso, essere ambasciatore di Cristo significa che dobbiamo parlare a nome di Cristo e trasmettere la verità su Cristo agli altri? No, questo è quello che fa un messaggero. Un messaggero comunica qualcosa a nome di un’altra persona; questo non è esattamente un ambasciatore. Essere un ambasciatore di Cristo significa che dobbiamo aiutare Cristo e fare il lavoro che Cristo farebbe se non stessimo qui? No, quello è quello che fa un delegato. Un delegato rappresenta un’altra persona che non è presente ed agisce nel suo nome. Questo non è un ambasciatore. Un ambasciatore vive in un paese straniero e viaggia lontano dalla sua casa, ad un altro paese, per vivere tra persone con differenti valori e differenti leggi. Ma lì, in quella terra straniera, l’ambasciatore vive in accordo con le leggi del suo paese di origine. San Paolo era realmente ispirato usando questa metafora.

Qual è il primo requisito per essere un buon ambasciatore di Cristo? Disinteresse. Rinnegamento. Auto-sacrificio. Uno sforzo serio di orazione, ci porta sempre a morire a noi stessi ed alle comodità, ai nostri apparentemente piccoli idoli.

La forma più elevata di libertà è donare la nostra libertà al Signore accettando la sua santa volontà. In realtà, quando obbediamo a lui, ci avviciniamo di più alla nostra vera natura che è l’unione mutua, lo scambio completo e la resa gioiosa:

Un uomo pio stava dicendo la sua preghiera del mattino, sotto un albero le cui radici si stendevano sul bordo del fiume. Mentre pregava, osservò che il fiume stava salendo ed uno scorpione rimase imprigionato nelle radici e stava per annegare. Allora l’uomo si chinò per tentare di liberare lo scorpione. Ma ogni volta che cercava di aiutare lo scorpione, questi rispondeva tentando di pungere l’uomo. Un osservatore si avvicinò e gli disse: Non sai che quella creatura è un scorpione, e che la natura di un scorpione è pungere? Al che il nostro uomo rispose: Questo può essere vero, ma non sai che sono cristiano, e la natura di un figlio di Dio è salvare? Perché dovrei cambiare la mia natura solo perché lo scorpione non cambia la sua?

Se affermiamo che Cristo è il nostro Re, allora dobbiamo seguirlo nella sua Passione di rinnegamento ed umiltà. Con Cristo, siamo chiamati a dare speranza e forza a coloro che sono scoraggiati ed indifesi nelle loro vite. E per fare quello… forse non dobbiamo guardare molto lontano.