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Vangelo e riflessione

Dormire o sognare? | Vangelo del giorno, 3 dicembre

By 29 Novembre, 2023No Comments
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Vangelo secondo San Marco 13,33-37:

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare. Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!».

Dormire o sognare?

Luis CASASUS Presidente delle Missionarie e dei Missionari Identes

Roma, 3 dicembre 2023 | Prima Domenica di Avvento

Isaia 63, 16b-17.19b, 64, 2b-7; 1Corinzi 1, 3-9; Marco 13, 33-37

Mi suscitano ammirazione le differenti sensibilità di molte persone. Alcune, per essere cresciute in una cultura differente dalla mia ed essere capaci di valutare meglio certi avvenimenti o certi segni della natura; altre, perché hanno sofferto esperienze dolorose dalle quali hanno imparato; altre, perché scoprono nelle opere d’arte quello che io non sono capace di vedere; altre, per il fatto di essere donne, o madri, o padri; altre, perché hanno riflettuto e pregato più di me.

La cosa certa è che ci sono moltitudini di realtà ed eventi, dentro e fuori di me, per i quali sono addormentato, ai quali non presto attenzione, né ho imparato a valutare. Questo spiega perché oggi Cristo insiste sulla necessità di stare attenti, di vegliare.

C’era una volta un re al quale piaceva mangiare bene. Quando il cuoco del castello diventò troppo anziano per continuare a preparare i pasti, il re cercò un nuovo cuoco. Un giovane fece domanda per essere assunto. Il re gli disse: Voglio che mi cucini il piatto migliore e più importante del mondo. 

Quella sera il re si sedette a tavola. Quando guardò il piatto speciale, esclamò: Andiamo, ma è solo una lingua di vacca! 

Il giovane rispose: Sì, lo è. Niente è più importante della lingua se si usa correttamente. La lingua serve per insegnare, per spiegare, per comandare, per difendere, per calmare. La lingua si usa per cantare ai neonati e per fare alleanze. La lingua deve essere la cosa più importante per un re. 

Il re disse: Devo dire che non me ne ero reso conto, giovane. Mi hai aperto gli occhi. Per questo, domani sera, voglio che mi prepari il peggiore piatto che conosca. 

Alla notte seguente, il giovane servì al re ancora lingua di vacca. Il re domandò: Che cosa succede? Ieri sera, la lingua era il migliore piatto del mondo. Questa notte è il peggiore. Come può essere? 

La differenza è quella che se ne fa con essa, signore, disse il giovane. Le lingue fanno pettegolezzi, provocano problemi e dicono bugie. Le lingue sono crudeli ed ipocrite. Per questo motivo, la lingua può essere il peggiore piatto del mondo. 

Sì, ho capito, rispose il re, Ho capito anche che ho bisogno della tua saggezza nella mia corte. Cercherò un altro per lavorare in cucina. 

Effettivamente, la nostra lingua è un buon esempio di qualcosa di molto vicino e molto intimo, anche materiale che dobbiamo valutare con attenzione. Ma, in questo Avvento che inizia, siamo invitati a ricordare che ci manca prospettiva, sensibilità e luce per apprezzare e trarre vantaggio da molte più cose che ci circondano. Così, la settimana scorsa parlavamo della presenza di Cristo, manifestata in molti modi: nell’Eucaristia, nel prossimo, in un’assemblea riunita nel suo Nome…

Ora è un buon momento per pensare a quello che difficilmente potremmo valutare come prezioso, o a volte imprescindibile. Questo è il caso di ciò che chiamiamo crisi, momenti critici, gravi difficoltà. Non facciamo nessuna filosofia, ma il cristianesimo nacque in un momento critico: L’Ultima Cena.

I discepoli erano andati con Gesù a Gerusalemme, con la speranza che si manifestasse come il potente Re-Messia. Ma quella notte si capì chiaramente che non lo era. Cosicché pensarono a come abbandonarlo: uno lo tradì, un altro lo rinnegò ed il resto fuggì. Sembra molto paradossale che la storia fondante della nostra fede cristiana sembri una storia senza futuro, né speranza. Tuttavia, precisamente da questa crisi sorse la speranza…. Ogni volta che ci riuniamo per celebrare la Cena del Signore, torniamo a riproporre questo dramma. È il Sacramento della speranza. Nell’Ultima Cena, Gesù non promise ai suoi discepoli che le cose sarebbero andate bene. Non diede loro piani concreti per il futuro. Invece di tutto ciò, ripartì il pane e diede loro un calice. Realizzò un segno che parlava di speranza quando nessuna speranza sembrava probabile.

In questi casi, tu e io reagiremmo generalmente come gli apostoli: fuggendo, evitando il dolore, scappando dalla difficoltà, forse abbandonando in molti modi, uno dei quali è continuare a camminare senza entusiasmo. Questo il comportamento prevedibile, quello istintivo, diciamo il mediocre, quello che normalmente si qualifica come logico o naturale. Era anche “naturale” che il fico che Cristo seccò alla radice (Mc 11, 12-14) non avesse frutto… perchè non era tempo di fichi. Il povero ed innocente fico servì affinché noi capissimo che Dio ci mette segni inaspettati, ci fa chiamate di aiuto che a volte non riusciamo a credere,

– perché non ci sentiamo nel nostro migliore momento spirituale,

– o perché siamo veramente occupati a fare cose buone che consideriamo più urgenti e siamo noi che abbiamo bisogno di aiuto,

– o perché non crediamo che realmente siano segni di Dio, che giudichiamo “dovrebbe comunicare con noi in un altro modo “… Questo non è tanto strano, perché più tardi, dopo l’Ascensione, ci fu una nuova crisi, con le persecuzioni, la morte di Pietro e Paolo e molti altri, come martiri, le divisioni tra i cristiani… ed inoltre il Messia atteso non arrivò. Quello fu il momento di crisi di cui la Provvidenza approfittò per ispirare i Vangeli e produrre un’espansione completamente inaspettata.

La speranza c’insegna a camminare nell’ombra, a volte senza vedere i passi successivi e magari con poche forze, ma con la certezza che la volontà di Dio ci stia guidando. La speranza dell’asceta è libera dai due estremi nei quali cade l’anima istintiva, individualista: lo scoraggiamento e l’ottimismo ingenuo che a volte il mondo proclama dicendo: Tutto andrà bene! Non è vero. Non tutto andrà bene, ma lo Spirito Santo l’utilizzerà affinché il regno del cieli avanzi, come dicevamo prima, in modo imprevedibile.

Lo disse anche Václav Havel, lo scrittore e politico cattolico ceco: La speranza non è la stessa cosa dell’ottimismo. Non è la convinzione che qualcosa andrà bene, bensì la certezza che qualcosa ha senso, indipendentemente da come risulti. 

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Nella Prima Lettura, uno tra i testi più belli dell’Antico Testamento, si richiede la presenza di Dio, chiedendogli di arrivare squarciando il cielo e fondendo i monti con la sua presenza. L’autore ricorda come Dio abbia aiutato il suo popolo nei momenti critici del passato, perfino dopo che Israele aveva commesso profonde infedeltà.

Questo è anche il tono della Seconda Lettura, dove San Paolo ricorda ai cristiani che non mancano di nessun dono, e per questo motivo non devono aspettare l’arrivo di Cristo, che non è andato via, ma di confidare in un arrivo che sarà l’ultimo, il definitivo. Questo è tanto importante che San Paolo mette solo alla fine della sua lettera il duro rimprovero per i vizi della comunità di Corinto; in primo luogo, il punto di partenza, è essere coscienti di quello che Dio ha messo nelle mie mani nonostante la mia mediocrità.

Quello di cui abbiamo bisogno è rimanere svegli, il che significa imparare a guardare al passato, vivere nel presente e prepararsi per il futuro. È una vera attenzione spirituale, non individuale, vissuta uniti alle Persone Divine. Qualcosa così affermava Sant’Agostino quando parlava della memoria.

* Se dimentico i miei peccati di ieri ed il perdono ricevuto da mio Padre celestiale, non sono sveglio. È la gratitudine che mi libera dalla vanagloria, dall’egoismo e dall’intolleranza.

* Se ora non ho lo sguardo sulla persona di Cristo, al momento di fare, pensare o dire qualunque cosa, non sono sveglio. È quello che il nostro Fondatore chiama Spirito Evangelico. 

* Se non mi comporto come un profeta, se non vivo sognando e preparandomi per l’orizzonte che lo Spirito Santo mi va rivelando per domani, non sono sveglio.

— ooOoo—

 

Cristo ripete tre volte: State attenti, Vegliate! Senza dubbio, è un compito colossale, per il quale abbiamo bisogno di tutta l’energia che possediamo e tutta la grazia che riceviamo. Vegliare non significa solo guardare che cosa succede “dentro di me” e intorno a me, ma anche essere cosciente di tutte le forme di relazione che ho col mio prossimo. Cristo entra nella mia vita, ma invia anche gli altri in molti modi, sicuramente più di quelli che io posso immaginare.

In questi giorni ricordavo come avesse influito sempre sulla mia vita il ricordo di un compagno di scuola che non era il migliore alunno, né il più simpatico, né uno dei miei amici intimi. Il suo ricordo non mi ha abbandonato mai, anche se non posso ricordare nessuna delle sue parole. Eravamo molto giovani, preadolescenti, ed egli si ammalò di tubercolosi, malattia poco frequente nel nostro ambiente. Quella malattia gli produsse sofferenze e limitazioni di ogni tipo. Io e alcuni dei nostri compagni cominciammo a riunirci per preparare piccole rappresentazioni umoristiche quando lo visitavamo alla domenica in ospedale. Fu grazie a lui che imparammo a sacrificare i nostri piani dei fine settimana; fu grazie a lui che ci facemmo più amici e fu grazie a lui che facemmo un piccolo grande passo nella nostra maturità.

Sì; Cristo cambiò la sua forma di presenza, rendendola dinamica, un continuo arrivo.

Arriva a noi mettendo consolazione ed allegria nel cuore, aiutando la nostra memoria, facendoci contemplare quello che abbiamo ricevuto da Lui, forse per anni.

Arriva a noi toccando segretamente ciascuna fibra della nostra anima, senza che succeda nulla intorno a noi, senza averlo chiamato.

Arriva a noi nelle lacrime del prossimo, a volte permettendoci di contemplare una debolezza ed un timore che non sospettavamo.

Arriva a noi quando ci fa comprendere che la nostra missione va oltre quello che pensavamo e ci spinge ad usare tutti i talenti ricevuti.

E, soprattutto, arriva a noi nella notte, quando attorno a noi tutto è culto alla vanità, ai propri desideri, alla propria idea del bene. Quando NON siamo preparati per la sua presenza, come avvenne a Mosè (Esodo 3), senza renderci conto che la terra che calpestiamo è terra santa. 

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Nei Sacri Cuori di Gesù, Maria e Giuseppe,

Luis Casasus