Vangelo secondo San Matteo 10,26-33
In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: «Non abbiate paura degli uomini, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto. Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze.
»E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo. Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri!
»Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli».
I colori della paura
Luis CASASUS – Presidente delle missionarie e missionari identes
Roma, 25 giugno 2023 – XII domenica del Tempo Ordinario
Geremia 20,10-13; Romani 5, 12-15; Matteo 10, 26-33
Ricordo che, tempo fa, un nostro gentile vicino di circa 50 anni ebbe un severo problema di salute, respiratorio e cardiologico allo stesso tempo. Come mi raccontò poi, il medico gli disse: O lei smette oggi stesso di fumare, o può cominciare a salutare la sua famiglia. Era veramente spaventato. Non so se fosse molto intelligente, ma la sua sensibilità l’aiutò. La paura lo spinse a lasciare immediatamente e definitivamente il tabacco, verso il quale aveva una potente dipendenza. Ho saputo poi che morì tranquillamente a 91 anni.
Oggi il Vangelo c’invita a meditare sulla paura che è naturalmente una delle forze più potenti nella vita. Benché la prima funzione della paura sia proteggerci, si può convertire in un duro ostacolo per la vita spirituale.
È interessante ricordare che già in modo classico si dice che le quattro emozioni basilari sono: paura, ira, pena ed allegria. Tutte e quattro sono presenti ai giorni nostri. Supponiamo che una persona sia gravemente malata all’ospedale. Ci si aspetta che sperimenti ansietà e tema il peggio. È probabile anche che si senta irritata per le apparenti mancanze di sensibilità del personale sanitario, che sembra non comprendere le sue difficoltà come paziente. Ma, contemporaneamente, quel malato si sentirà particolarmente allegro per piccoli gesti di attenzione, come una visita degli amici, un modo attento di ascolto dei medici o per la notizia di un probabile miglioramento. Tuttavia, il soggiorno nell’ospedale sarà sicuramente accompagnato dalla pena per la lontananza di molti amici o la difficoltà di muoversi o di andare al bagno.
Sì; la nostra esistenza è piena di emozioni di molti colori e dobbiamo ricordare che questo è inevitabile e può avere un certo effetto sul nostro modo di amare, il che è molto più che un’emozione.
Vediamo dunque cosa dovremmo fare con la paura, se veramente crediamo che Cristo è il Maestro per la nostra vita.
Egli ci dice quando dobbiamo lasciarci portare dalla paura e quando dobbiamo ignorarla. Come nel caso del mio amico fumatore, la paura è veramente utile se mi porta a mettere in atto TUTTI i mezzi per raggiungere un obiettivo prezioso o fare cambiamenti importanti nella mia vita. Tuttavia, può essere paralizzante e riuscire a farci perdere le migliori opportunità per servire o per dare una testimonianza che sarebbe preziosa.
In primo luogo, osserviamo che Gesù si riferisce alla paura della morte dell’anima e del corpo. Questo non è un semplice esempio. In effetti, possiamo dire che, in realtà, la paura della morte è “il re dei terrori”. Così viene già chiamata nell’Antico Testamento. Leggiamo nel libro di Giobbe (cap. 18, 5.13-14):
Certamente la luce del malvagio si spegnerà e più non brillerà la fiamma del suo focolare. (…) Un malanno divorerà la sua pelle, roderà le sue membra il primogenito della morte. Sarà tolto dalla tenda in cui fidava, per essere trascinato al re dei terrori!
Anche il nostro padre Fondatore raccoglieva questa idea nel suo libro Trasfigurazioni, quando dice: L’uomo teme la morte perché umilia la sua ambizione.
Muoriamo quando perdiamo qualcosa che consideriamo sostanziale nella nostra vita, come quando sparisce un amico, o la nostra fama viene rovinata. Possiamo morire al peccato, come ci dice il Vangelo; o morire a noi stessi; la fede, senza le opere, muore (Giacomo 2, 26). Sono molte le forme di morte, alcune feconde, come quella del grano che muore nel terreno ed altre deplorevoli, ma oggi Gesù ci istruisce affinché non ci fermi la paura di chi può danneggiare la nostra vita o la nostra fama. Egli è il migliore esempio, perché nella sua vita ed in quella dei primi discepoli vediamo come questo coraggio sia contagioso, e come invece, deplorevolmente, è contagiosa la paura di noi quando siamo mediocri nella nostra vita spirituale ed apostolica.
Infine, ricordiamo che Egli ci incoraggia a TEMERE il maligno, colui che è capace di farci morire completamente (Cristo dice “distruggere corpo e anima”), cioè, privarci della vita eterna già da ora. È la chiamata ad una diligenza ascetica, al negarsi ad entrare in dialogo con le passioni, mascherate o no, e con le manipolazioni da parte del diavolo.
Ma sappiamo, deplorevolmente, che la maggioranza delle persone, credenti o no, NON teme il diavolo. Il meccanismo per fare così è semplice (ed è opposto al metodo scientifico): ignorarlo, o semplicemente non considerare la possibilità della sua esistenza.
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Ma Cristo oggi non ci parla solo della paura. Inizia e termina il suo discorso chiedendoci di proclamare quello che ci ha detto nell’oscurità, quello che ci ha sussurrato all’orecchio. Che significa questo? Niente di meno che condividere col prossimo quello che abbiamo appreso nell’orazione intima, quello che Padre, Figlio e Spirito Santo ci comunicano con le loro tre voci, con l’Ispirazione che continuamente riceviamo.
Il proclamare dai tetti quello che abbiamo sentito da Cristo non significa gridare, ovviamente. È un’espressione che ci ricorda che qualunque grazia, qualunque dono ricevuto personalmente, lo riceviamo affinché arrivi agli altri, con parole e opere, ma soprattutto con mitezza ed umiltà di cuore. Un esempio contrario a questo è quello del padre o della madre, del superiore o della superiora religiosi, che corregge chi deve essere corretto, ma mescolando in ciò il suo malessere personale, la sua convinzione di essere vittima “innocente” degli altri.
Il proclamare dai tetti significa, al contrario, che devo utilizzare tutto il tempo, tutti i talenti, tutti i mezzi alla mia portata per trasmettere la Buona Notizia ricevuta. Oggi è una buona occasione per comprendere che questa Buona Notizia è la redenzione, il perdono vero che abbiamo già ricevuto, cioè la compagnia di Cristo fino alla fine dei tempi.
È curioso come il nome della “Compagnia di Gesù” sia stato interpretato da alcuni solo come un’allusione al termine militare “Compagnia”, utilizzato in qualche lingua. In realtà, il senso più profondo che Sant’Ignazio diede a questo nome è l’avere Cristo al fianco, o, come direbbe il nostro padre Fondatore, la Beatitudine che sentiamo in mezzo alle difficoltà e persecuzioni, al sapere che non siamo soli, che ognuno dei nostri capelli è contato.
La promessa di Cristo per il giusto è sottile, profonda. In effetti, la persecuzione comincia sempre con l’attacco alla fama, con la giustificazione intima o pubblica (critiche, sarcasmi, o diffamazioni) della necessità di emarginare o eliminare in qualche modo quella persona. Pensiamo a quello che è successo allo stesso Gesù, quando i suoi nemici dicevano che era mangione, beone e amico dei peccatori (Lc 7, 34); Caifa lo chiamò impostore e blasfemo.
Ricordiamo quello che ci dice oggi la Prima Lettura, per sottolineare che quanto è successo a Cristo non è nuovo e che tutti i profeti ed anche i veri fondatori hanno sofferto qualcosa di simile: Tutti i miei amici spiavano la mia caduta: «Forse si lascerà trarre in inganno, così noi prevarremo su di lui, ci prenderemo la nostra vendetta». Ma il Signore è al mio fianco come un prode valoroso, per questo i miei persecutori cadranno e non potranno prevalere
E’ così, attaccheranno la nostra fama e giocheranno col nostro orgoglio. Ci vedremo tentati ad uscire in nostra difesa, e a vedere l’attacco come un problema personale, dato che si tratta di un conflitto realmente spirituale. Gli amici ci dimenticheranno ed i nemici esulteranno. La cosa fondamentale è che non dobbiamo sorprenderci; tutto questo era previsto. Ma quello che Cristo ci promette, in primo luogo, è che parlerà molto bene di noi davanti al nostro Padre Celestiale, confermandoci come autentici figli suoi, nonostante i nostri peccati.
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In questa domenica vediamo unite due realtà che ci accompagneranno sempre se siamo fedeli: la paura della morte e l’essere testimoni del Vangelo di giorno e dai tetti, umilmente e valorosamente.
Come spiega la Seconda Lettura, il peccato di Adamo portò la morte, nel senso di mancanza di vita piena e la morte di Gesù ci diede la pienezza di vita, la vita eterna. Ognuno di noi dovrebbe riflettere oggi su come l’autentico Rinnegamento riassume tutto lo sforzo della nostra orazione che ci rende veri discepoli missionari.
Ricordiamo il caso di due valorose donne, le levatrici Sifra e Pua, delle quali parla il libro dell’Esodo (1, 13-19), di come utilizzarono la conoscenza del loro lavoro per evitare la morte dei bambini ebrei, dicendo al re degli egiziani che le donne ebree erano più vigorose delle egiziane e partorivano prima che esse potessero arrivare ad assisterle. Esse vissero un vero e santo timor di Dio, non del faraone, e furono fedeli alla loro vocazione di aiutare gli altri. I loro nomi saranno ricordati per sempre, mentre il nome del “re egiziano” non viene neppure menzionato nell’Esodo.
Vivere con l’astuzia di un serpente e la mitezza di una colomba.
Questo è quello che proclamiamo nella Sacra Martiriale che il nostro padre Fondatore c’invita a vivere, senza paura di perdere la vita e la fama e senza maledire i nostri nemici: Ti prometto, Signore, di vivere e trasmettere il Vangelo, col sacrificio della mia vita e della mia fama, fedele alla maggiore testimonianza d’amore, morire per te.
Vorrei terminare con una poesia di Margaret E. Sangster (1838 – 1912), nella quale parla del dolore di tutti noi quando non facciamo tutto lo sforzo possibile nel proclamare quello che Dio ci ha sussurrato all’orecchio:
Il peccato di omissione
Non è la cosa che fai, amor mio,
è quella che eviti di fare,
che ti dà un pizzico di tristezza al cuore
al tramontar del sole.
La tenera parola dimenticata;
la lettera che non hai scritto;
i fiori che non hai mandato, amor mio,
sono i fantasmi che ti tormentano di notte.
La pietra che avresti potuto togliere
dal cammino di un fratello;
il piccolo consiglio amorevole
che non hai dato per la tua troppa fretta;
il tocco affettuoso della mano, amor mio,
il tono caloroso e delicato,
per il quale non avevi né tempo, né pensiero,
a causa dei tuoi problemi.
Quei piccoli atti di bontà,
così facilmente dimenticati;
quelle occasioni di essere angeli
che noi poveri mortali abbiamo.
Essi arrivano nella notte e nel silenzio,
come un fantasma triste e accusatore,
quando la speranza è debole e affievolita
e il gelo fa rabbrividire la fede.
Perché la vita intera è troppo corta, amor mio,
e il dolore è troppo grande,
per accontentarsi della nostra lenta compassione
che giunge troppo tardi;
e non è la cosa che fai, amor mio,
è quella che eviti di fare,
che ti dà un pizzico di tristezza al cuore
al tramontar del sole.
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Nei Sacri Cuori di Gesù, Maria e Giuseppe,
Luis Casasus