
di p. Luis Casasús, Superiore Generale dei Missionari Identes
Commento al Vangelo del 15 ottobre 2017, XXVIII Domenica del Tempo Ordinario (Libro Isaia 25, 6-10a; Filippesi 4, 12-14.19-20; Matteo 22, 1-14)
Il cielo entra nella nostra vita gradualmente se condividiamo ogni volta di più la nostra esistenza con Dio e con il prossimo. Per questo si suole identificare il Regno di Dio con un banchetto. E’ una metafora molto appropriata, che rappresenta l’invito del nostro Padre Celeste alla comunione con i nostri simili e alla filiazione con Lui. Vivere una vita in comunione con gli altri è possibile solo quando stiamo con Dio e Dio sta con noi.
Nella prima lettura, anche Isaia descrive con l’immagine di un banchetto le benedizioni divine che il Regno del Messia porterà. Si riferisce al grande banchetto che Dio prepara per il suo popolo e così viene descritta la visione profetica dell’universalità della salvezza.
La vera Salvezza presuppone allo stesso tempo libertà e pienezza, con una pace che il mondo non ci può dare.
Quando Paolo scrive ai Filippesi, lo fa dalla prigione e, tuttavia, da mostra di una di una gioia e pace sorprendenti, soprattutto quando sappiamo che era in attesa della sentenza. Veramente non era una persona disfatta o disperata. Al contrario, aveva vinto tutte le paure della sua vita. Veramente aveva trasceso tutte le vicissitudini che lo disturbavano. Viveva in unione con Dio e la vita dello stesso Dio.
Quando non siamo più schiavi delle nostre passioni e delle circostanze della vita, quando le disgrazie non ci abbattono, né distruggono la pace della nostra anima, quando incontriamo la gioia, allora sappiamo che viviamo il cielo sulla terra, liberi dalla paura, dall’orgoglio, dall’ansia, e specialmente dalla paura della morte. Questo è stare in pace e nelle mani di Dio.
L’alimento appare nelle tre letture di oggi come una immagine della generosità divina e della sua presenza in mezzo ai suoi figli. Abbiamo bisogno di una risposta urgente alla nostra aspirazione più profonda: donare la nostra vita agli altri. Siamo stati creati in questo modo, questa è la nostra natura, molto al di là dei nostri peccati e delle nostre debolezze. E possiamo saziare questa fame solo con una autentica vicinanza a Cristo. Questa è una verità universale e antropologica:
“Ma, associato al mistero pasquale, configurato con la morte di Cristo, arriverà, corroborato dalla speranza, alla resurrezione. Questo vale non solamente per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà nel cui cuore opera la grazia in modo invisibile. Cristo è morto per tutti e la vocazione suprema dell’uomo, in realtà, è una sola, cioè quella divina. Di conseguenza, dobbiamo credere che lo Spirito Santo, in un modo conosciuto solo da Dio, offre a tutti la possibilità di associarsi al mistero pasquale.” (Gaudium et spes)
Con le parole del nostro padre Fondatore, Fernando Rielo:
“La sete di Assoluto, la vocazione alla trascendenza, l’apertura all’infinito, sono esperienze che, in un modo o nell’altro, non smettono di sollecitare in ogni momento l’essere umano. Tutti ne siamo sorpresi. Nessuno può affermare, sinceramente, che non capisce queste espressioni. E se le capisce, è perché qualcosa di esperienza ha di esse.” (Concezione Mistica dell’Antropologia)
Pertanto, possiamo pensare alla Salvezza con fiducia, perfino se non comprendiamo come agisce lo Spirito Santo.
Ma, ironicamente, l’essere umano non vuole vivere questa relazione come una grazia. Quando Cristo disse questa parabola, si dirigeva agli ebrei, specialmente ai leader religiosi. Essi pretendevano di essere giusti davanti a Dio per i loro meriti. Davano priorità al valore delle buone opere.
Questa Salvezza precisa il nostro distacco. Sì, nel nostro affanno per i godimenti e gli obblighi temporali, ricusiamo questo invito, il nostro gran dolore dopo la morte sarà il renderci conto del prezioso bene che abbiamo perduto. E questa è probabilmente la descrizione più azzeccata del purgatorio. Sappiamo che Dio non è come il re di questa parabola, ma il risultato finale può essere lo stesso. Noi pregiudichiamo noi stessi con le nostre scelte, anche quando sembrano essere incoscienti. Come l’uomo che arrivò al banchetto nuziale senza i vestiti adeguati, forse noi pretendiamo di partecipare al Regno celestiale senza scegliere in modo cosciente, costante, quello che Dio desidera che facciamo: essere come Cristo, una persona che vive per gli altri.
Anche noi corriamo il rischio di prendere alla leggera il nostro invito, ricevuto al battesimo. Non approfittiamo pienamente dei sacramenti, l’Eucaristia e la penitenza, o abbiamo solo uno stato di orazione occasionale, non permanente.
In varie occasioni, Paolo aveva ricevuto un aiuto economico generoso dai cristiani di Filippi. In questo modo, le sue parole della seconda lettura sono una “nota di gratitudine” dalla prigione. Proclama con enfasi: In Lui che è la fonte della mia fortezza, incontro la forza per tutto. Quando l’Apostolo ringrazia i suoi amici per le loro delicatezze, lo fa come una manifestazione del fatto che dobbiamo raggiungere la santità in comune.
Ma questo banchetto è più che un’allegoria o una promessa. Ci è stato donato il vestito nuziale nel battesimo. Il battesimo è la porta verso il cielo. Per questo, la seconda parte della parabola si riferisce a coloro che hanno accettato Cristo nel battesimo.
La chiave del nostro battesimo è che ci assicuriamo che il vestito che ci fu dato allora continui ad essere un vestito di festa, non uno straccio.
Siamo sicuri della promessa del cielo, soprattutto perché sperimentiamo il cielo come un’anticipazione nell’Eucaristia. Di fatto, l’Eucaristia, come alimento, è già assaporare anticipatamente il cielo. Così, nel salmo diciamo: Hai preparato un banchetto per me, agli occhi dei miei nemici. Partecipare a questo banchetto è vivere nella casa del Padre, quando sperimentiamo la sua bontà e la sua misericordia ogni giorno della nostra vita.
E l’Eucaristia è più che un ricordo di questo banchetto. È un segno potente, ma è anche la presenza di Cristo tra noi. Alcuni autori la chiamano la grazia costosa, perché ci è stata data con la morte del Figlio unico di Dio. È una grazia che dobbiamo cercare una ed un’altra volta, il regalo che dobbiamo chiedere in uno stato di Supplica Beatifica che, a sua volta, è anche una grazia. Questa grazia è costosa anche perché ci chiama a seguire completamente Cristo.
Un bambino piccolo arrivava sempre tardi a casa uscendo da scuola. I suoi genitori un giorno lo avvisarono che sarebbe dovuto arrivare puntualmente quel pomeriggio ma, tuttavia, arrivò più tardi che mai. Suo padre lo incrociò all’entrata e non disse niente. Al momento della cena, il bambino guardò il suo piatto. C’erano solo un pezzo di pane ed un bicchiere d’acqua. Guardò il piatto di suo padre che era pieno, ma il padre restò in silenzio. Il bambino era desolato. Il padre sperò che l’impatto fosse stato massimo ed allora, con calma, prese il piatto del bambino e lo mise di fronte a se stesso; poi, prese il suo piatto di patate con carne e la mise di fronte al bambino, con un sorriso. Quando il bambino crebbe, diceva: Tutta la mia vita ho saputo come è Dio per quello che mio padre fece quella notte.
Il nostro peccato è una cosa seria. La grazia di Dio è un regalo costoso. Cristo ce lo fa vedere oggi nella parabola dell’abito di festa.
Il nostro abito di festa è fatto dalle nostre opere, di giustizia, carità e santità, mosse dalla grazia. Dobbiamo riflettere per vedere se abbiamo accettato in modo completo l’invito divino al banchetto messianico e ricordare che mangiare con Lui implica intimità, fiducia e perdono.
Non siamo stati invitati da Dio? Non siamo chiamati allora ad essere i messaggeri che vanno a dire agli invitati (il mondo intero) che tutto è pronto? O forse noi stessi non assistiamo perché abbiamo qualche impegno urgente che consideriamo più importante?
Dobbiamo mostrare a Cristo la nostra gratitudine per l’invito al banchetto celestiale e la parabola di oggi ci mostra che la vera gratitudine significa fare uso del regalo che abbiamo ricevuto.
Quando il re osservò l’uomo che non portava l’abito di festa, gli disse: Amico come sei entrato qui senza essere vestito per la festa? E l’uomo rimase in silenzio, perché non aveva scusa per non averlo portato. Di fatto, l’abitudine era donare un abito di festa ad ogni persona che si invitava. Il fatto di non averlo portato poteva essere un segno di arroganza, di mancanza di gratitudine e di non volersi unire alla celebrazione. Così, il silenzio di quell’invitato diceva molto del riconoscimento della sua irresponsabilità e della sua vergogna. Non aveva scuse. Andava contro la sua natura. Ebbene, qual è la mia scusa?
Ricevere questi doni di Dio esige che, invece di continuare ad essere un membro tiepido e passivo nella mia comunità, io cominci a dare testimonianza visibile della mia fede.
La parabola ci dice pure che, quando accettiamo liberamente Cristo come Signore e Salvatore, dobbiamo dedicare a Lui la nostra vita. In altre parole, il cristiano deve rivestirsi dello spirito e degli insegnamenti di Gesù. La grazia è un dono ed anche una grave responsabilità.