“Questo francescano intraprese il cammino della sua consacrazione con la decisione irrevocabile di essere santo. In lui sono racchiusi quattro decadi di aridità e assenza di consolazioni, colmate da orazione, fede e carità benedette da Dio”.
Fu un esempio di umiltà e di carità. Crebbe e visse con la convinzione che doveva essere santo. Nato il 4 giugno 1655 a Cori (Latina, Italia), la sua infanzia fu segnata dalla perdita dei suoi genitori e dalla conseguente responsabilità di badare alle sue due sorelle. Imparò il mestiere di pastore e gustò la presenza di Dio, della quale parlava anche lo splendido ambiente della campagna coltivata nella quale passava lunghe ore al giorno assaporando una feconda solitudine quale manto nel quale avvolgeva il divino colloquio che sosteneva con l’Altissimo. Nell’ambiente gli avevano dato il nome di santico per la sua manifesta pietà.
Quando le sue sorelle si sposarono, poté abbracciare la regola francescana poiché aveva familiarizzato con la comunità di frati che si trovava nella sua città natale. Dopo avere realizzato il noviziato a Orvieto, e frequentato gli studi regolamentari, nel 1683 fu ordinato sacerdote. La sua prima missione fu quella di maestro di novizi nel convento della Trinità di quella località. Ma Tommaso amava la vita eremitica. Per questo motivo quando seppe che quella via cominciava ad essere importante nell’Ordine, e che le previsioni di governo dei suoi superiori includevano la possibilità di mettere in moto un Ritiro nel convento che esisteva a Civitella (attuale Bellegra) si offrì per questa missione. Quelli che conoscevano le sue doti singolari, lo destinarono lì. Suonò alla porta del convento nel 1684 con una lettera personale di presentazione, chiara e schietta; trasudava umiltà: “Sono frate Tommaso da Cori e vengo per diventare santo.”
Ad eccezione di una piccola parentesi di sei anni nei quali fu guardiano del convento di Palombara, dove arrivò con l’obiettivo di instaurare un altro ritiro, il resto della sua vita lo passò a Bellegra. Tra le sue molte virtù spicca la sua vivenza dell’orazione continua, ed il suo amore senza riserve all’Eucaristia; la chiave della sua vita radicava nelle interminabili ore di prostrazione davanti al Santissimo. “Se il cuore non sta in orazione, la lingua lavora invano”, normalmente diceva, consigliando ai frati di leggere con devozione l’ufficio divino. Per la sua fecondità fu denominato l’ “apostolo del sublacense”(della diocesi di Subiaco). Durante più di quaranta anni sperimentò l’aridità ed assenza di consolazioni.
Squisito nella sua carità, si offriva a tutti in maniera servizievole e rispondeva con pazienza ai fratelli che non vedevano di buon occhio la radicalità della vivenza della regola francescana. Arrivarono perfino a lasciarlo solo per rispondere al convento. Con tanto celeste bagaglio percorreva le strade, amministrava i sacramenti e vedeva fiorire i miracoli al suo passaggio. Fu un apostolo instancabile che trasmetteva il vangelo con la trasparenza di chi l’ha fatto vita in sé stesso. Con chiarezza e semplicità, commuovendo con le sue parole coloro che andavano ad ascoltarlo, la sua voce risuonava fondamentalmente tra le genti che popolavano il Lazio.
Da buon francescano, non nascondeva la sua predilezione per i poveri. Per questi prenotava anche quegli atti di carità coi quali è tracciata tutta la sua biografia, lasciando plasmati tratti di fede che attraevano del cielo benedizioni divine straordinarie. Così si racconta che avendo lasciato vuote le provviste del convento di pane per avere ripartito tutto tra i bisognosi, arrivando i suoi fratelli trovarono coperte tutte le necessità che avevano. Nell’ “Epistolario”, scritto da lui, si scopre la sua squisitezza ed attenzione per ognuna delle persone che a lui si avvicinavano, insieme a quelle che dispensava ai fratelli dalla sua comunità.
Fu premiato con molti favori celestiali, tra gli altri, le estasi che si produssero pubblicamente in varie occasioni. Una di esse successe mentre stava ripartendo la Sacra Comunione e fu elevato fino al soffitto portando la pisside nelle sue mani per tornare a discendere poco più tardi davanti agli attoniti occhi dei fedeli, ai quali poté continuare a dare la comunione con tutta semplicità. Morì l‘11 gennaio 1729, mentre dormiva, con la sublime gioia di essersi dedicato interamente a Cristo e agli altri; quello stesso giorno, come era sua abitudine, aveva ascoltato i penitenti nel confessionale per ore.
Fu beatificato da Pio VI il 3 settembre 1786, e canonizzato da Giovanni Paolo II il 21 novembre 1999.
Quel giorno, questo pontefice ricordò che il santo “fu immagine viva del buon Pastore. Come guida amorosa, seppe condurre i fratelli affidati alla sua attenzione verso le verdi praterie della fede, incoraggiato sempre dall’ideale francescano”, facendo notare che visse “la regalità dell’amore e del servizio, secondo la logica di Cristo.”
TRADUZIONE ITALIANA
Isabel Orellana Vilches, Gesta d’amore (Epopeyas de Amor)
© Isabel Orellana Vilches, 2018
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