Skip to main content
Santo

Santa Giacinta de Marescotti, 30 gennaio

By 29 Gennaio, 2024Aprile 17th, 2024No Comments
Print Friendly, PDF & Email

“Parlare di un “polso” (fermezza) tra Dio e un’anima ribelle con riferimento a Giacinta, significa riconoscere il potere del dono della fede che operò in lei il prodigio di cambiare l’imposizione paterna di entrare nella vita religiosa in un torrente di grazie”.

 

Nessun apostolo che si vanti può pensare che i frutti della sua azione evangelizzatrice esigono certi parametri previ senza i quali difficilmente possono affiorare i sentimenti di conversione nel suo ambiente. La risposta all’appello di Cristo è picchiettata da una moltitudine di sfumature, frequentemente sorprendenti che mettono chiaramente in rilievo la donazione divina che la spinge. È un dono e come tale sorge e si manifesta in qualunque momento e circostanza, anche nelle più avverse. In un istante concreto i parametri della disubbidienza cadono, fatti a pezzi davanti all’amore divino, inondando per sempre il deserto iniziale di uno spirito equivocamente combattivo. Frequentemente, lo strumento scelto da Dio per rompere la sfuggente volontà è stato la mazzata della malattia. Benché Giacinta si vedesse esposta ad una vita che non desiderava per sé, alla fine antepose la volontà divina alla sua.   

Apparteneva ad una famiglia di origine nobiliare, credente e praticante di Viterbo (Italia), dove nacque il 16 marzo 1585. Sua madre fu la contessa di Vignanello. Erano cinque fratelli. Ginevra, la primogenita, fu una virtuosa Terziaria Regolare Francescana e gli altri quattro fratelli furono esemplari nella loro vita e nelle professioni; uno di essi morì nella Curia di Roma. I genitori misero tutto il loro impegno affinché i loro figli ricevessero la migliore educazione. 

Nel caso concreto di Giacinta, alla quale imposero il nome di Clarice, considerarono che essi non avrebbero potuto uguagliare la formazione che le avrebbe dato sua sorella Suor Innocenza, battezzata come Ginevra, nel monastero di san Bernardino di Viterbo. Ma le arie del posto non colpirono Giacinta. L’austerità conventuale contravveniva con la tendenza al lassismo dell’adolescente che, attratta con irresistibile forza dalle cose mondane, si compiaceva di ciò. Civetta e vanitosa, si vantava apertamente dell’illustre ascendenza della sua famiglia e le prebende che portava annesse. Alla fine, lasciò le religiose.     

Il suo ritorno tanto desiderato fu marcato da una febbrile urgenza nel voler approfittare del tempo perduto. La frenesia delle feste, la preoccupazione per l’ornato, l’abbraccio ad una vita oziosa furono tali che suo padre tornò a portarla in convento per preservarla da mali maggiori. E quando andava a visitarla, ascoltava i suoi lamenti: “Qui mi tieni come suora come hai voluto, ma io voglio vivere d’accordo con la mia condizione sociale”. Per la seconda volta il suo genitore autorizzò la sua uscita. Ed ella si trovò bocconi con il fallimento. A nulla valevano i suoi affanni e sforzi per ottenere un buon partito, e vedeva sfumare i suoi sogni matrimoniali che altri giovani, come sua sorella Ortensia, ottenevano, senza darsi tante arie, né vivere prese da se stesse. 

Ritornò al convento, consigliata dai suoi genitori, ma contro la sua volontà. I risultati furono nefasti. I dieci primi anni della sua vita nel monastero li trasformò in una copia di quello che c’era all’esterno. La sua cella era un espositore della stessa cosa che albergava dentro di sé: il vuoto, per quanto tingesse il suo abitacolo con decorazioni piene di lusso. Il soggiorno nel convento era drammatico. Incapace di darsi alla preghiera e alla meditazione, non sopportava le correzioni, né seguiva l’obbedienza. A 20 anni non nascondeva il suo sdegno e l’avversione per la vita religiosa.    

Ma Dio si avvalse della malattia per portarla verso di Lui. Si convertì quando un virtuoso francescano che chiamarono affinché la confessasse, poiché la sua morte la terrorizzava, rimase pietrificato vedendo la sua cella, e si rifiutò di amministrarle la confessione, riprendendola severamente: “Il paradiso non è fatto per sorelle superbe e vanitose!”. Impressionata, vestì l’abito, rimpiazzando i suoi ricchi vestiti, e si confessò tra lacrime di pentimento chiedendo perdono alle sue sorelle. Ma non si liberò completamente dei suoi attaccamenti. Ed ammalandosi di nuova, santa Caterina da Siena, attraverso una visione, mediò affinché la sua conversione fosse piena. 

Giacinta aveva 30 anni quando, allo stesso modo che rischiava la sua vita, sentì germogliare nel suo cuore una sorgente di pietà e penitenza che l’avrebbe condotta sugli altari. L’austerità e le discipline furono da allora le sue compagne di strada. Determinò di infliggersi mortificazioni diverse volendo unirsi alla Passione di Cristo. Digiuni e cilici per un’anima peccatrice, che era come si sentiva. Affinché l’aiutassero in questo cammino di perfezione, scelse santi che erano passati per circostanze simili alla sua prima di convertirsi: santa Maria Egiziaca, sant’Agostino e santa Margherita di Cortona. Deliberatamente cercava ogni occasione per vivere l’umiltà e la pazienza.    

In quell’itinerario spirituale, pieno di atti di amore e segnato da una squisita obbedienza, arrivò ad essere maestra di novizie e vice-superiora. In queste missioni dovette fare provvista di umiltà per formare sorelle nelle quali apprezzava qualche virtù concreta che ella non aveva avuto. La preghiera e la contemplazione della Passione di Cristo le concessero la fortezza nelle sue sofferenze, vedendosi adornata dalla dimenticanza di sé. 

Per aiutare coloro che sperimentavano lo smarrimento del peccato, che conosceva per esperienza, fondò due confraternite: la Compagnia dei Sacconi (Confraternita degli incappucciati) dedicata all’attenzione dei malati e moribondi, e la Congregazione degli oblati di Maria per promuovere la pietà, la carità e l’apostolato dei laici. Giacinta ricevette numerosi doni: di profezia, estasi, di miracoli e penetrazione di spiriti, tra gli altri. Convertì molti. Morì il 30 gennaio 1640 a 45 anni. 

Fu beatificata da Benedetto XIII – membro della famiglia Orsini, come sua madre – il 1° di settembre del 1762. E fu canonizzata da Pio VII il 24 maggio 1807.  

  

 

 

TRADUZIONE ITALIANA
Isabel Orellana Vilches, Gesta d’amore (Epopeyas de Amor)

© Isabel Orellana Vilches, 2018
Autora vinculada a

Obra protegida por derechos de autor.
Inscrita en el Registro de la Propiedad Intelectual el 24 de noviembre de 2014.
________________
Diritti di edizione riservati:
Fondazione Fernando Rielo
Hermosilla 5, 3° 28001 Madrid
Tlf.: (34) 91 575 40 91 Fax: (34) 91 578 07 72
E-mail: fundacion@rielo.org

Deposito legale: M-18664-2020
ISBN: 978-84-946646-6-3