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Santo

San Rafael Arnaiz Baron, 26 aprile

By 25 Aprile, 2024No Comments
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“La croce fu l’unico tesoro che ebbe questo grande trappista, brillante architetto, un giovane sensibile di grande finezza umana e spirituale. Il diabete pose fine alla sua vita in giovane età. Giovanni Paolo II lo mise come modello per i giovani”.

Nacque a Burgos, Spagna, il 9 aprile 1911. La sua inclinazione a vivere per e con Dio fu manifesta già nell’infanzia. “Solo Dio riempie l’anima…, e la riempie tutta!”, diceva. In quell’epoca dorata contrasse alcune febbri dovute a colibacilli. Quando guarì, suo padre, che aveva visto nella guarigione un intervento di Maria, lo consacrò a Saragozza alla Vergine del Pilar nell’estate del 1922. Rafael non dimenticò questo fatto. “Onorando la Vergine, ameremo più Gesù; mettendoci sotto il suo manto, comprenderemo meglio la misericordia divina”. La malattia non l’avrebbe mai abbandonato.

Era elegante, sensibile. Anche capriccioso e tendente alla vanità. Possedeva una brillante intelligenza, con predominio dell’intuizione che gli permise di emergere negli studi benché non li curasse debitamente. Si stabilì con la famiglia ad Oviedo, ed al termine della sua formazione basilare si iscrisse alla Scuola Superiore di Architettura di Madrid.

Fece grandi amicizie perché era una persona affettuosa e vicina nella quale si percepiva l’impronta di Dio. Era vincolato all’Apostolato della Preghiera, all’Adorazione Notturna e alla Congregazione di Maria Immacolata. A 19 anni visitò il monastero cistercense di San Isidro de Dueñas che l’attirò potentemente, tanto che il 16 gennaio 1934 vi entrò, lasciando dietro di sé le previsioni eventuali di un futuro splendido, e le possibilità che gli offriva quotidianamente il benessere della sua casa paterna.

La sua illusione di donarsi a Dio attraverso una vita penitente e contemplativa era più forte di tutto. “La vera felicità si trova in Dio e solamente in Dio”. Non contava sulla presenza repentina del diabete, temibile allora per le sue funeste conseguenze che l’obbligò ad abbandonare la Trappa in tre occasioni. Comprese il senso purificatore del dolore: “Quando mi vedo un’altra volta nel mondo, malato, separato dal monastero, e nella situazione in cui mi trovo… vedo che mi era necessario, che la lezione che sto imparando è molto utile, perché il mio cuore è molto affezionato alle creature, e Dio vuole che lo liberi per darlo solo a Lui”.

La sua esperienza personale gli permetteva di illuminare la vita di altre persone e condurli a Dio. A sua zia Maria, duchessa di Maqueda, consigliava nel 1935: “Lasciati fare; soffri, ma soffri amandolo, amandolo molto attraverso l’oscurità, nonostante la tempesta che sembra che il Signore ti abbia messo, nonostante non vederlo, ama il tronco nudo della croce […]. Piangi, piangi tutto quello che puoi e soffri, ma ai piedi della croce, e soffri amando Dio, che felicità!…  Come ti ama Dio, lo vedrai da molto vicino un giorno”.     

La sua ricca vita interiore gli aveva permesso di conoscere la stretta simbiosi spirituale che esiste tra il dolore e la gioia, esperienza che trova chi cerca Dio con cuore molto puro: “Molte volte ho pensato che la maggiore consolazione è non averne nessuna; l’ho pensato e l’ho sperimentato […]. Qualche volta ho sentito nel mio cuore piccoli battiti d’amore per Dio… Ansie di Lui e disprezzo del mondo e di me stesso. Qualche volta ho sentito la consolazione enorme ed immensa di vedermi solo ed abbandonato nelle braccia di Dio. Solitudine con Dio. Nessuno che non l’abbia sperimentato, può saperlo, ed io non lo so spiegare. Ma so solo dire che è una consolazione che si sperimenta solo nel soffrire…, e nel soffrire da solo… e con Dio, c’è la vera allegria”. 

I suoi sentimenti ricordano le vivenze mistiche di Giovanni della Croce e di Teresa di Gesù: “È desiderare niente più che soffrire. È un’ansia molto grande di vivere e morire ignorato dagli uomini e dal mondo intero… È un desiderio grande di tutto quello che è volontà di Dio… È un non volere niente al di fuori di Lui… È volere e non volere. Non so, non mi so spiegare… solo Dio mi capisce…”.    

In questo cammino di perfezione andava lasciando indietro zavorre che in un altro tempo gli avevano pesato: “Tutto va cambiando nella mia anima. Quello che prima mi faceva soffrire…, ora mi è indifferente; invece, vado trovando le pieghe del mio cuore che erano nascoste, e che ora escono alla luce […]. Quello che prima mi umiliava, mi causa una risata. Non mi importa più la mia situazione di Oblato […]. Vedo che l’ultimo posto è il migliore di tutti; mi rallegro di non essere nulla, né nessuno, sono incantato con la mia malattia che mi dà motivi per soffrire fisicamente e moralmente…”.

L’asse della sua vita era Cristo: “Il mio centro è Gesù, è la sua croce”. La coscienza della sua indegnità gli faceva dire: “Sono stato un gran peccatore… Perdonami, Signore, quello che dico…. Io, Signore, niente voglio, niente mi importa… solo Tu… non farmi caso, Signore… sono un bambino capriccioso. Ma Tu hai la colpa, Dio mio…se non mi amassi tanto! “.    

Rifiutandosi di abbandonare la sua vita religiosa, ritornò al monastero una quarta volta. Prese la decisione, quando ancora era realmente penoso e supponeva un atto eroico per una situazione come la sua, con una natura debole che doveva lottare contro la malattia. “Se quello che desideri è… le mie sofferenze, prendile tutte, Signore”.

Offrì a Dio in olocausto il suo personale calvario, lasciando germogliare la potente portata del suo amore. Di lui ci rimangono magistrali tracce nei suoi scritti, prolungamento post mortem della sua feconda attività apostolica. In essi si scopre la finezza e profondità di questa anima delicata. “Solamente nel silenzio si può vivere, ma non nel silenzio di parole e di opere…, no; è un’altra cosa molto difficile da spiegare…. È il silenzio di chi ama molto, molto, e non sa che cosa dire, né che cosa pensare, né che cosa desiderare, né che cosa fare…. Solo Dio là dentro, molto silenzioso, attendendo, attendendo, non so…, è molto buono il Signore”.    

Era un esteta che sognò di spargere nella pittura la bellezza dell’amore divino che segnò il suo spirito. Morì in conseguenza di un coma diabetico il 26 aprile 1938. Aveva 27 anni. I suoi resti giacciono nel cimitero del monastero.

Il 19 agosto 1989 Giovanni Paolo II, nella Giornata mondiale della gioventù, lo propose come modello per i giovani. Il 27 settembre 1992 lo beatificò. E Benedetto XVI lo canonizzò l’11 ottobre 2009.

 

© Isabel Orellana Vilches, 2018
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