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Santo

San Nunzio Sulprizio, 5 maggio

By 4 Maggio, 2024No Comments
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“Patrono degli invalidi e degli infortunati per cause lavorative, Nunzio passò per questo mondo soffrendo un autentico calvario. Paolo VI si commosse per la sua vita e durante il Concilio Vaticano II lo elevò agli altari tra i beati”.

La sua vita fu ricolma di pazienza e bontà. E il trattamento che ricevette di freddezza e durezza fu tale che ricorda quelle favole nei quali un personaggio vive tormentato da una specie di orco che l’ha imprigionato. Ovviamente, la differenza tra la finzione e la realtà è un fatto insuperabile. Davanti ad entrambe si può fare un paragone, nient’altro. Disgraziatamente, quello che accade in certe occasioni è infinitamente più doloroso che quanto esposto in un semplice racconto. Paolo VI, commosso per le virtù di Nunzio, il 1° dicembre 1963, in pieno Vaticano II, l’elevò agli altari richiamando l’attenzione dei padri conciliari. Suggerì loro di stabilire un’amicizia con lui, poiché la sua vita doveva servire per riflettere nel colloquio celestiale che mantenne e prenderlo come modello da imitare nel cammino che fece sulla terra. Anche Gaetano Errico che conobbe il santo alle soglie della sua fondazione -i missionari dei Sacri Cuori di Gesù e di Maria-, era disposto ad ammetterlo, nonostante le sue pessime condizioni di salute. Sbrigò subito le critiche malintenzionate di coloro che giudicarono la sua decisione lasciando chiaro l’essenziale: “Questo è un giovane santo ed a me interessa che il primo che entra nella mia Congregazione sia un santo, non importa se è malato”. 

Nacque a Pescosansonesco, Pescara, Italia, al piede degli Appennini, il 13 aprile 1817. Suo padre era calzolaio. Morì nell’agosto del 1820, e benché sua madre cercasse di affrontare la situazione da sola, la precarietà ebbe la meglio. Due anni più tardi contrasse nuove nozze con un vicino della località di Corvara che fin dal primo momento non nascose la sua antipatia per il piccolo. Questo, lontano dalla sua avversione, era felice nella scuola diretta dal parroco. Familiarizzava con le verità della fede e riceveva nozioni di lettura e scrittura. Ma, soprattutto, imparava a contemplare il viso di Cristo crocifisso, morto per espiare i peccati dell’Umanità. Odiava ogni male, e voleva assomigliare a Lui. Inoltre, si abituò a pregare e ad imitare i santi.

Nel 1823 morì sua madre e rimase sotto le cure di sua nonna Rosaria, prolungando un po’ più quel periodo gentile della sua vita, benché tinto dal dolore della perdita sofferta. Ella continuò incoraggiandolo ed accompagnandolo nel cammino della virtù fino alla sua morte che avvenne nell’aprile del 1826. A 9 anni Nunzio rimase alla mercé di uno zio materno, Domenico, fabbro di professione, che gli aprì le porte dell’eternità. Vietò completamente la sua educazione, e lo mise a lavorare al suo servizio in condizioni infra-umane. Senza appena riposo, ed in numerose occasioni senza alimento da portarsi alla bocca, con scarsi capi d’abbigliamento di vestire trasportava pesanti carichi nel suo minuto corpicino sopportando distanze, inclemenze meteorologiche, e rischi diversi che potevano capitare. Ritornando lo aspettavano le insolenze. Obbligato a battere l’incudine quasi senza respirazione, offriva tutto a Cristo. Voleva ottenere il paradiso con le sue molte sofferenze. Così solo le domeniche aveva un piccolo momento di riposo che gli permetteva di andare a messa.

Un inverno transitava per i pendii di Rocca Tagliata con l’insopportabile fagotto in mezzo ad una gelida temperatura. Cominciò a notare il piede con una gran febbre che si estese lungo la gamba come la polvere da sparo. Si coricò senza dire niente. il giorno dopo non era capace di reggersi in piedi. Suo zio non tenne conto né della infiammazione, né della febbre. L’obbligò a lavorare, come sempre, sotto minaccia. I vicini si impietosirono qualche volta di lui e gli davano qualcosa da mangiare. Nunzio non si lamentava davanti a loro della condotta della sua famiglia. Piuttosto li scusava. Quando poteva, andava a messa e pregava davanti al Santissimo. La lesione lo corrodeva, e Domenico permise solo che lasciasse l’incudine e si occupasse del soffietto. Nuovo supplizio. Per tentare di calmare gli atroci dolori e la suppurante piaga correva ad una fontana pubblica, dalla quale fu allontanato per evitare il possibile contagio. Cosicché trovò un’altra corrente di acqua a Riparossa dove normalmente pregava i rosari alla Vergine, verso la quale aveva gran devozione. Nel 1831 entrò nell’ospedale di L’Aquila, ma lo rimandarono a casa come malato incurabile. Lì aveva vissuto della carità consolato dalla preghiera. Ritornando a casa di suo zio, questi non lo riaccolse. E si dedicò a mendicare. Pensava per sé: “È molto poco quello che soffro, purché possa salvare la mia anima amando Dio.”   

Un viaggiatore che seppe di lui, informò suo zio paterno Francesco, militare a Napoli, della situazione che attraversava. Nunzio aveva 15 anni. Suo zio lo prese e lo presentò al colonello Felice Wochinger, un uomo buono che soccorreva i poveri, stabilendosi tra tutti e due una bella relazione paterno-filiale. Felice si occupò che ricevesse tutta l’assistenza possibile nell’ospedale degli Incurabili col migliore trattamento. Il personale del centro ed i malati si resero conto della grandezza del ragazzo. Lì fece la sua prima comunione e confidò ad un sacerdote il sentimento che tutto quella che gli succedeva era provvidenza di Dio. Per due anni ci furono momenti di leggero miglioramento, risultato delle eccellenti attenzioni ricevute nelle terme di Ischia. Si reggeva con un bastone, impartiva catechismo ed aiutava coloro che soffrivano nel suo ambiente. Dedicava la maggior parte del tempo a pregare il Santissimo e la Vergine Dolorosa.

Nel 1834 comunicò il suo desiderio di dedicarsi a Dio nel momento più conveniente per lui. Nel frattempo, sarebbe vissuto col sentimento di chi ha già fatto della sua donazione qualcosa di effettivo: orazione, studio, meditazione… Il colonello l’appoggiò. Ma nel marzo del 1836 peggiorò. La gamba era affetta da cancrena. Gioioso, fiducioso, ringraziando Dio per il suo dolore, l’offrì per i peccatori con lo stesso desiderio: se soffriva, sarebbe andato in paradiso. “Gesù soffrì molto per me. Perché non posso soffrire io per Lui?”. Era disposto a morire pur di convertire un solo peccatore. Il 5 maggio pregò Felice di vivere con allegria, assicurandolo che non gli sarebbe mai mancato il suo aiuto dal cielo. Quindi morì. San Gaetano Errico lo considerò un diletto figlio, il primo che entrava nella vita eterna. È patrono degli invalidi e degli infortunati per cause lavorative. Fu canonizzato da Francesco il 14 ottobre 2018.

 

© Isabel Orellana Vilches, 2018
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