“Presbitero francese, membro della Congregazione della Missione. Appassionato di Cristo, aspirò al martirio che ottenne nella missione della Cina in mezzo ad atroci sofferenze”
Il suo raccapricciante martirio nella missione della Cina, piagato da torture, può essere equiparato per la sua raffinata crudeltà ad altri commoventi che tante volte hanno falciato la vita dei fedeli seguaci di Cristo. Era nato a Puech di Montgesty, (Cahors, Francia), il 6 gennaio 1802. Fu il primogenito di otto fratelli. In apparenza, la sua vocazione al martirio come missionario nacque quando da bambino ascoltò l’accesa predica che un sacerdote fece in una delle chiese che normalmente frequentava. Che entrasse nella Congregazione della Missione era qualcosa di comprensibile poiché uno zio paterno faceva parte della stessa, ed i suoi parenti vivevano questo fatto come una benedizione. Gran parte degli uomini della famiglia furono ordinati sacerdoti. Poco prima di compiere i 15 anni, Giovanni Gabriele affermò che voleva essere missionario. E compì il suo desiderio entrando nel seminario di Montauban, diretto dai padri lazzaristi che erano intrisi del carisma di san Vincenzo de Paoli. In realtà, egli andava come semplice accompagnatore di suo fratello piccolo Luigi, con l’idea di rimanere lì per una stagione. Ma si sentì chiamato al sacerdozio e durante il noviziato ratificò il suo anelito di spargere il suo sangue per amore di Cristo.
Fu ordinato nel settembre del 1825 dal vescovo di Montauban, e benché l’urgesse il voler partire per le missioni dovette aspettare dodici anni prima di compiere il suo sogno. Volle occupare il posto di suo fratello Luigi che era morto di alcune febbri mentre era in viaggio per la Cina. Ma non godeva di buona salute, ed i suoi superiori lo nominarono vicedirettore del noviziato di Parigi dopo avere esercitato brillantemente l’insegnamento nel seminario di Saint-Flour. Fino a lì arrivavano le notizie del martirio di altri fratelli, notizie che non facevano altro che alimentare il suo desiderio di morire per Cristo. Davanti ai capi d’abbigliamento che vestiva il P. Clet, uno dei religiosi che aveva raggiunto quella palma da lui agognata, manifestò: “Ecco qui l’abito di un martire… quanta felicità se un giorno avessimo la stessa fortuna” […]. “Pregate affinché la mia salute si fortifichi e che possa andare nella Cina, al fine di predicare Gesù Cristo e di morire per Lui”. Ma i suoi fratelli conoscevano già la sua difficoltà per ristabilirsi fisicamente, affinché la sua debole costituzione non gli impedisse di andare in Cina, diffondere lì il Vangelo ed ottenere la corona da martire. Non nascondeva di essere entrato nell’Ordine con quell’esclusivo fine.
Finalmente, dato che nel 1835 i medici autorizzarono la sua partenza, i superiori diedero anch’essi il permesso. L’intrepido apostolo arrivo a Macao nel marzo del 1836. Studiò con vero impegno la lingua cinese ed adottò le abitudini e l’abbigliamento dei cittadini, rapandosi la testa e lasciandosi crescere capelli e baffi. I due anni che rimase a Ho-nan e a Hu-pé si caratterizzarono per un’intensa azione apostolica tra i bambini abbandonati che assisteva, alimentava ed istruiva. Le dure inclemenze del tempo non lo fermarono. Soffrì innumerevoli fatiche, tra le altre, quelle causate dai suoi spossanti spostamenti che normalmente realizzava a piedi oppure in carrette tirate da buoi, sempre allegro, senza preoccuparsi di passare fame e sete, o mantenersi in uno stato di veglia. “Bisogna guadagnarsi il cielo col sudore della fronte”, diceva. Tutto gli sembrava poco per potere trasmettere l’amore per Cristo, la sua unica passione: “Gesù Cristo è il gran maestro della scienza; solo Lui dà la vera luce. Ogni scienza che non procede da Lui e non conduce a Lui è vana, inutile e pericolosa. Non c’è che una sola cosa importante: conoscere ed amare Gesù Cristo”. Con la sua grazia superò momenti di scoraggiamento che qualche volta l’assalirono.
Nel 1839 si scatenò una persecuzione ed i missionari della comunità di Hu-pé dove Giovanni Gabriele era destinato, dovettero fuggire. Arrivava il suo momento; era preparato. Tanto la sua famiglia come il suo superiore conoscevano la sua assoluta disponibilità a compiere la volontà divina, il suo desiderio di unirsi al Redentore. Il valoroso missionario aveva scritto a suo padre, consolandolo in anticipo davanti alla più che prevedibile morte che sapeva che l’aspettava e che desiderava: “Se dovessimo soffrire il martirio, sarebbe una grazia grande che ci verrebbe concessa; è qualcosa da desiderare, non da temere”. Ed al superiore generale trasmetteva la sua pace con la sapienza incarnata in Cristo, frutto della sua orazione, esponendo con chiarezza quello che conosceva in modo sovrabbondante circa la vita missionaria; in modo implicito ratificava il suo quotidiano abbraccio alla croce e la sua serena attesa davanti al martirio: “Non so che cosa mi riserverà il futuro. Senza dubbio molte croci. È la croce il pane quotidiano del missionario.”
Non era temerario. E quando tutti fuggirono, egli si rifugiò in un bosco. Ma un mandarino convertito lo denunciò per trenta taéis, moneta cinese. A partire da quell’istante gli atroci supplizi che dovette soffrire furono indicibili. In una lettera intrisa di sangue scrisse alla comunità narrando parte di quello che aveva sofferto fino a quel momento, dando risposta alla richiesta del P. Rizzolati. Lo torturarono selvaggiamente pur di ottenere che facesse apostasia della sua fede in Cristo. Ma egli si mantenne inalterabile, senza proferire nessun lamento. Siccome sopravviveva ai crudeli tormenti, l’imprigionavano per tornare a tormentarlo con più violenza se possibile. Il viceré non riuscì a fargli calpestare il crocifisso. L’11 settembre 1840 dopo essere rimasto incatenato con ceppi ed essere stato trattato con tanta ferocia in Ou-tchang-fou, lo legarono ad un tronco a modo di croce e morì strangolato. Aveva 38 anni. I suoi resti riposano a Parigi, nella cappella della sede generale della sua Congregazione.
Leone XIII lo beatificò il 10 novembre 1889. Giovanni Paolo II lo canonizzò il 2 giugno 1996.
© Isabel Orellana Vilches, 2018
Autora vinculada a
Obra protegida por derechos de autor.
Inscrita en el Registro de la Propiedad Intelectual el 24 de noviembre de 2014.
________________
Derechos de edición reservados:
Fundación Fernando Rielo
Hermosilla 5, 3° 28001 Madrid
Tlf.: (34) 91 575 40 91 Fax: (34) 91 578 07 72
Correo electrónico: fundacion@rielo.org
Depósito legal: M-18664-2020
ISBN: 978-84-946646-6-3