“Il predicatore dell’amor di Dio che si qualificava come peccatore. Contrasse la lebbra a 20 anni e promise di consacrarsi se fosse guarito. Quando recuperò la salute, compì la sua parola. E’ co-fondatore dei Chierici regolari”.
La firma delle sue lettere era: “Francesco, il peccatore”, un gesto che rivela la sua umiltà e un sentimento di indigenza. La vita gli si mise contro nell’albeggiare di una gioventù che portava con sé quella moltitudine di sogni che popolano una mente libera da impegni, e dove la cosa insospettata, in particolare quello che causa sofferenza, si presuppone lontano da se stessi. Determinate vivenze si attribuiscono istintivamente a persone che hanno una certa età, una frontiera che in quegli anni appariva remota. Caracciolo seppe rispondere a Dio; approfittò della sua dolorosa esperienza per unirsi a Lui.
Nacque a Villa Santa Maria, Italia, il 13 ottobre 1563. Era il secondo dei cinque figli di un eminente e credente matrimonio. Gli misero il nome di Ascanio. Ricevette un’accurata educazione, come conveniva al suo lignaggio, educazione che insieme alla sua intelligenza diede buoni frutti. Fu alunno ben dotato in lettere e retorica; compose discorsi e dominò la lingua latina a 9 anni. Quindi si trasformò in un giovane attraente e disinvolto, con notabile ingegno, al quale piacevano le feste e gli sport. Nonostante ciò, aveva gran devozione per l’Eucaristia e la Vergine; quotidianamente recitava il rosario e digiunava al sabato. Ma questi segni di pietà non erano vincolati ad una vocazione a cui neanche pensava. Erano pratiche frequenti che realizzavano molti altri giovani coetanei.
Fece il soldato ed orientò la sua formazione al commercio e alla politica. Ma non contava su due circostanze che gli si presentarono determinando la rotta della sua vita. La prima soglia fu la malattia. A 20 anni contrasse la lebbra. Ed oltre al dramma di vedere terribilmente impregnata la sua pelle, soffrì l’abbandono dei suoi amici che si allontanarono per paura del contagio. Isolato in una stanza per elementare prudenza, aveva la consolazione di potere sentire la messa attraverso una finestra che dava sulla cappella familiare. Quando l’essere umano giace vinto dalla debolezza, contemplando la sua fragile condizione che lo fa essere tanto vulnerabile, la vita scorre davanti ai suoi occhi come in un secondo. Che cosa fare con i progetti?, che senso hanno tante banalità dell’esistenza? Perfino, benché non lo fossero, come soffocare il sentimento di eternità che sgorga dal più profondo di se stessi, quell’affanno che lotta per farsi largo dal recondito luogo nel quale giace? Il santo ebbe occasione di meditare su tutto ciò, di identificare le sue profonde emozioni.
Trovandosi avvolto dall’angoscia della solitudine e la paura della morte elevò i suoi occhi al cielo e promise a Dio: “Se mi curi da questa malattia, dedicherò la mia vita al sacerdozio e all’apostolato”. Guarì in modo subitaneo, e si incamminò per Napoli. Con l’idea fissa di essere sacerdote visitava le chiese meno frequentate nelle quali poteva pregare con maggiore raccoglimento. Fu ordinato nel 1587 e l’anno seguente si iscrisse nella confraternita dei Bianchi, una congregazione che prestava assistenza ai carcerati, molti di essi condannati ad anni di galera ed altri che stavano per essere giustiziati.
In quell’epoca arrivò da Napoli un genovese, Giovanni Antonio Adorno, al quale san Luigi Beltrán aveva profetizzato a Valencia che sarebbe stato fondatore. E questa seconda pietra miliare per Ascanio fu la casualità in forma di Provvidenza. Quando il genovese si ordinò, si iscrisse anch’egli nella confraternita dei Bianchi intavolando amicizia con l’abate di Santa Maria Maggiore, Fabrizio Caracciolo, che era parente di Ascanio. Condividendo entrambi simili ideali simili, determinarono di scrivere ad un terzo parente di questi, che casualmente si chiamava anche lui Ascanio. L’emissario che portava la lettera la consegnò al nostro santo che vedendo nell’equivoco il dito di Dio capì che doveva unirsi a loro. I tre rimasero quaranta giorni nell’abbazia dei genitori camaldolesi e redassero gli statuti della fondazione dei “Chierici minori.”
Dopo aver professato nel 1589 Ascanio prese il nome di Francesco, in onore del “Poverello”. Aggiunsero un quarto voto per il quale rinunciavano ad accettare dignità ecclesiastiche. Pensando di fondare in Spagna, Adorno e lui ebbero un colloquio con Filippo II che negò loro il suo appoggio, fino a quando in un altro momento e per intercessione del papa Clemente VIII che placò il re, Ascanio poté fondare a Valladolid e ad Alcalà. Ritornato a Roma mise in moto nuove fondazioni, come poi fece a Napoli. In questa rete di azioni apostoliche soffrì persecuzione e fu oggetto di mormorazioni, calunnie ed incomprensioni, frutto della rivalità e di altre passioni altrui che si accanirono sulla sua persona. Accolse di buon grado le contrarietà, compiendo la volontà divina con perfetta umiltà. Il suo spirito di penitenza, i digiuni e le esagerate mortificazioni alle quali si sottomise convertirono molti. E Dio lo benedisse con estasi che in certe occasioni gli sopravvenivano semplicemente guardando il Crocifisso o nell’avere pensieri elevati sulla Vergine. Queste esperienze riempivano i suoi occhi di lacrime. Parlava con tanta unzione della misericordia divina che la gente lo chiamava “il predicatore dell’amore di Dio”. La sua fama di santità lo precedeva. La gente normalmente si prostrava davanti a lui pregando di avere la sua benedizione.
Alla morte di Adorno, fu designato superiore generale dell’Ordine. Come tale mantenne inalterata la traiettoria comunitaria che aveva vistato la sua vita condividendo con gli altri i compiti domestici, oltre a chiedere elemosina per soccorrere gli indifesi. Alla fine presentò la sua rinuncia al governo per dedicarsi alla preghiera, e scelse come dimora un buco sotto la scala. Filippo Neri gli propose di aprire una fondazione in Agnone. Intraprese questa impresa gioioso perché nell’itinerario si trovava il santuario della Vergine di Loreto dove si trattenne. Poté pregare quella notte, ma il giorno dopo, 4 giugno 1608, si presentò un quadro febbrile, e niente si poté fare se non amministrargli i sacramenti. Aveva tanta fretta di partire che le sue ultime parole furono: “Andiamo, andiamo al cielo”.
Clemente XIV lo beatificò il 4 giugno 1769. Pio VII lo canonizzò il 24 maggio 1807.
© Isabel Orellana Vilches, 2018
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