“L’uomo delle otto beatitudini. Giovane, attraente, sportivo, patrono ufficiale delle Giornate mondiali della Gioventù”
Piergiorgio diede al mondo, e in particolare ai giovani, una magistrale lezione che non si dovrebbe mai dimenticare: “Vivere senza fede, senza un patrimonio da difendere, senza compiere una lotta per la Verità non è vivere, bensì tirare a campare… Perfino, attraverso ogni disillusione, dobbiamo ricordare che siamo gli unici a possedere la verità”. In precedenza riconosceva la grazia che aveva ricevuto essendo nato cattolico. Fu la sua maggior eredità che non gli diede la sua benestante famiglia di Torino.
Nacque il 6 aprile del 1901. Sua madre Adelaide Ametis era pittrice e suo padre Alfredo Frassati, agnostico dichiarato, fu senatore e ambasciatore in Germania, oltre ad essere fondatore del prestigioso quotidiano La Stampa, la cui tendenza non era proprio affine alla Chiesa. E benché il suo ambiente non gli fornì una formazione nella fede ancorata alla vivenza, seguì i dettati del suo cuore. Non guardò dall’altra parte, non alloggiò in un comodo vuoto la sua intima persuasione che lo spingeva a dare il massimo, ma si dispose a vivere il Vangelo con tutte le sue conseguenze. Sua sorella e lui si formarono in un centro statale e nella scuola dei gesuiti. In quest’ultimo, Piergiorgio si legò alla Congregazione Mariana e all’Apostolato della Preghiera. A 17 anni entrò nella Società di San Vincenzo de Paoli e a 19 si impegnò con la Federazione degli Studenti Cattolici e con l’Azione Cattolica.
Si iscrisse al Politecnico di Torino nel corso di laurea di Ingegneria mineraria. Si era trasformato in un giovane di bell’aspetto, innegabilmente attraente, un consumato montanaro che faceva dono del suo grande senso dello humor, appassionato e idealista, incline a difendere sempre i deboli; neppure i suoi studi misero fine alle azioni misericordiose che realizzava in precedenza. L’Università era un brodo di cultura per tendenze disparate: una rete complessa nella quale facilmente germinavano conflitti ideologici e politici, lasciando la religione al di fuori di tutto.
In questo ambiente, gravemente rarefatto e ostile alla fede, egli organizzò alcune azioni per risvegliare la dormiente coscienza spirituale dei suoi compagni. Pensò di invitarli ad una adorazione notturna. Gli estremisti con modi fanatici strapparono i cartelli in sua presenza. L’impressione, davanti a questo segno d’intolleranza, l’accompagnò fino alla fine. Non si scoraggiò. Non poteva farlo perché si era abbracciato a Cristo, incarnando con la sua vita il Vangelo. Si era donato alla causa di assistere i malati, seguire gli orfani e coloro che ritornavano malmessi nel corpo e nell’anima dalla sanguinosa guerra mondiale. Era catechista in un quartiere periferico nel quale, oltre a formare i bambini, difendeva il religioso Domenicano, che guidava il centro dove si riunivano, dalle notorie aggressioni verbali e fisiche che gli infliggevano certi comunisti. Era frequente vederlo per le strade trasportando le umili cose dei poveri che non sapevano dove andare, pagando il trasporto pubblico a chi lo chiedeva, dando elemosine, ecc. Quello che era necessario, sempre allo scopo di soccorrere coloro che ne avevano bisogno, a costo di rimanere con il portafoglio vuoto. La sua ricca famiglia non lo capiva. I suoi genitori non seppero mai che pensando ad essi rinunciò ad un amore segreto.
Nel 1921 organizzò il primo congresso di Pax Romana a Ravenna con l’idea di coinvolgere tutti gli universitari del mondo in difesa della pace. Qualsiasi situazione era buona per fare apostolato: la montagna, il teatro, l’opera, i musei. Aveva ricevuto una squisita educazione. Gli piaceva l’arte, la musica, l’appassionava Dante, e aveva una certa predilezione per gli scritti di Caterina da Siena che lo indussero a convertirsi in terziario domenicano nel 1922. Non era disposto ad accettare nessun “ismo”. E quando osservò che il totalitarismo di qualunque segno non contemplava tra i suoi principi la difesa della persona, né il rispetto della fede cattolica, lo affrontò apertamente.
Primariamente, affrontò il comunismo e poi il fascismo, senza riuscire a capire come persone conosciute che si dichiaravano cattoliche, potessero simpatizzare con queste ideologie. Era un giovane coerente, autenticamente impegnato con il suo ideale, e questo sentimento mal compreso dai fanatici, si trasformò in una pericolosa calamità per la sua vita. Non erano disposti a permettere che uscisse con la sua fede e aggredirono barbaramente la sua casa mentre stava mangiando con sua madre. Allora diede anche prova della sua virilità e valorosamente strappò il bastone, arma dei violenti e attaccò il gruppo che scappò a gambe levate.
Per esercitare la sua carità entrava in quartieri e case, nelle quali per mancanza d’igiene si correvano alti rischi di contagio di molte malattie; questo pericolo era moneta di scambio abituale. I suoi amici, che invitava a seguirlo in queste opere di carità, erano spaventati, ma egli ricordava loro che in quelle persone si trovava il volto di Cristo. Alla fine del 1925, in una di queste azioni caritative a domicilio contrasse una poliomielite. Aveva 24 anni, chi poteva pensare ad una morte imminente? Il suo ambiente continuò la sua abituale routine senza prestargli attenzione. Sua nonna si trovava in coma e tutte le inquietudini si riversarono su di lei. Quando la famiglia si rese conto della sua gravità, questa era già irreversibile. Neppure il siero che ottennero dall’Istituto Pasteur di Parigi servì a fermare l’inevitabile.
Sul punto di morire, pensando a coloro per i quali stava dando la vita, raccomandò a sua sorella di portare una scatola delle sue iniezioni ad un’altra persona che ne aveva bisogno annotandone l’indirizzo e si preoccupò di pagare anche l’assicurazione medica. Morì a Torino il 4 luglio del 1925. Alcuni giorni prima aveva scritto: “In questo mondo che si è allontanato da Dio manca la pace, ma manca anche la carità, ossia l’amore vero e perfetto. Forse se San Paolo fosse da noi ascoltato, le miserie umane sarebbero un poco minori”.
Fu beatificato da Giovanni Paolo II il 20 maggio 1990. Che lo chiamò “l’uomo delle otto beatitudini”
© Isabel Orellana Vilches, 2018
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