“Abate e fondatore. Il perdono che concesse all’assassino di suo fratello cambiò il corso della sua vita. E’ patrono delle guardie forestali, dei monti e dei parchi d’Italia”
Originario di Firenze (Toscana, Italia), nacque nel secolo X nel seno di una benestante famiglia. Erano proprietari del castello di Petroio, in Val di Pesa, un luogo frequentato da Giovanni. La sua formazione era pessima; fu quasi analfabeta, ma supplì a quella deficienza con le sue molte virtù. Ebbe un solo fratello, Ugo, che era più giovane di lui. Trattandosi dell’erede, suo padre aveva riposto in Giovanni molti sogni; sperava che scalasse posti di rilevanza nel governo. Allora la società era immersa in continui conflitti. In mezzo ad essi, nel 1003, il giorno di venerdì Santo, Ugo fu assassinato ma non ci sono notizie sulla vera causa di questa tragedia. Suo padre e suo fratello Giovanni che allora aveva 18 anni, cercarono di farsi giustizia da soli, fatto frequente. Ma l’assassino fuggì. In un’altra occasione, Giovanni si dirigeva a Firenze a cavallo accompagnato da un gruppo di uomini armati, e nelle vicinanze di San Miniato si vide coinvolto in una rissa. Tra i rivali riconobbe il boia di suo fratello e cercò di ucciderlo ma la supplica del criminale cadde su lui come un raggio. L’omicida, vedendosi oggetto di vendetta e senza possibilità alcuna di fuga, scese da cavallo e lo pregò in ginocchio: “Giovanni, oggi è venerdì Santo. Per Cristo che morì per noi sulla croce, perdonami salvandomi la vita”. Giovanni non si scompose. L’affanno di saldare il debito era maggiore, e si dispose ad eseguirlo quando, nuovamente, in quel disperato ed ultimo tentativo per salvare la sua vita, l’uomo alzò gli occhi al cielo con un commovente discorso: “Gesù, Figlio di Dio, perdonami Tu almeno”. Come una vampata, il santo ricordò il gesto supremo di perdono che Cristo concesse sulla croce, e rinfoderò la spada. Quell’atto di misericordia contro colui che gli aveva strappato il suo unico fratello, attiro di per se stesso la grazia di Dio. E scendendo da cavallo, l’abbracciò: “Per amore di Cristo, per il sangue che oggi sparse Gesù sulla croce, ti perdono”.
Poco dopo si diresse al monastero benedettino di San Miniato e si prostrò davanti ad un’immagine di Cristo crocifisso, portando nel suo cuore questa forte impressione dell’accaduto. Lì ebbe luogo un fatto straordinario. L’immagine del Redentore si chinò verso di lui e manifestò in un dolce gesto l’infinito amore che gli professava. Dopo, non fu più lo stesso. La prima cosa che fece non appena poté, una vota abbandonate le armi, fu andare in un monastero benedettino per poter entrare. Suo padre, profondamente contrariato dalla notizia, si trasferì nel convento col fermo proposito di dissuaderlo. Ma fu inutile. Giovanni aveva già deciso di seguire Cristo fino alla fine dei suoi giorni donandogli la sua vita come religioso. Constatando la sua ferrea determinazione, suo padre lo benedisse. Dopo la morte dell’abate, fu designato per succedergli. La simonia era nell’aria, ed egli abbandonò la comunità avendo denunciato tale pratica sulla piazza pubblica della località. Di seguito, insieme ad un altro religioso, scelse un luogo ritirato per vivere a Camaldoli. Non gli sembrò sufficientemente appartato, e si dispose a partire di nuovo verso Vallombrosa. Al momento dell’addio, san Romualdo gli profetizzò la sua missione come fondatore. E, in effetti, in quel luogo istituì un nuovo Ordine retto dalla regola di san Benedetto da Norcia, ma Giovanni un po’ la riformò. Le modificazioni che introdusse riguardavano il lavoro manuale dei monaci di coro che soppresse, ed inoltre accolse i fratelli laici diventando probabilmente il pioniere dentro il monacato nell’accettazione di questi “conversi.”
La sua maggiore preoccupazione era mantenere indenne la carità che doveva impregnare la vita comunitaria. La chiave?: “Per conservare inviolabilmente questa virtù, è immensamente utile la comunione dei fratelli riuniti intorno al governo di una sola persona”. L’attrazione per la vita monacale si incrementò e sorsero molte vocazioni. Con esse poté continuare fondando monasteri in Toscana e regioni attigue. Costruì scuole per lo studio della grammatica, della retorica ed altre arti. I beni che chiedeva ai ricchi li destinava all’aiuto dei poveri. La sua presenza e quella dei suoi fratelli costituirono un faro luminoso nell’oscurità spirituale nella quale si trovavano molti religiosi e laici. Giovanni fronteggiò fatti spregevoli come la simonia, lo scisma, le eresie ed il concubinato, mettendo un freno alla corruzione dei costumi. Molti ecclesiastici, edificati dalla vita di donazione che portavano i monaci di Vallombrosa, segnata dall’orazione, la penitenza, il silenzio e la povertà, che diventarono di ogni cuore abbracciandosi alla vita comunitaria.
In epoche di carenza e fame, le genti che accorrevano per chiedere aiuto a Rozzuolo non partivano mai con le mani vuote perché Dio operava il prodigio di colmare le loro necessità traendole dalle ispense monacali dove non c’era praticamente niente. A forza di ascoltare la lettura dei testi sacri che altri facevano a sua istanza, Giovanni si trasformò in un esperto conoscitore della legge e della Scrittura. Ci furono molti momenti nei quali dovette lottare contro il maligno; lo vinse con l’orazione e la penitenza, assistito sempre dalla grazia di Dio. Ricevette i doni di profezia e di miracoli. Gli ultimi anni dovette combattere con diverse malattie. Si ritirò a Passignano e lì morì il 12 Luglio dell’anno 1073.
Celestino III lo canonizzò il 24 ottobre 1193. Nel 1951 Pio XII lo proclamò patrono dei monti dell’Italia.
© Isabel Orellana Vilches, 2018
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