
Vangelo secondo San Giovanni 20,1-9:
Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!».
Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.
Risorgere con Lui
Luis CASASUS Presidente delle Missionarie e dei Missionari Identes
Roma, 20 aprile 2025 | Domenica di Resurrezione
Atti 10, 34.37-43; Colossesi 3, 1-4; Giovanni 20, 1-9
Quelle donne che si alzarono presto per arrivare al sepolcro di Gesù “quando ancora era scuro” furono più diligenti dei discepoli, che furono avvisati da loro. Ma, almeno, i due discepoli, andarono correndo al luogo dove dovevano andare per comprendere, finalmente, quello che Cristo aveva annunciato loro. Conclusione: Cristo ci chiede uno sforzo per poter partecipare al suo Regno, qualcosa che molti auto-definitisi atei moderni non hanno fatto, cioè, non hanno guardato con attenzione nel loro interno per vedere quali cose succedono.
Questo spiega perché il nostro padre Fondatore scrive nelle sue Trasfigurazioni una frase demolitrice: L’ateismo è pensiero che fugge dallo sforzo.
In effetti, né gli atei, né quelli di noi che sono cristiani pigri, si disturbano a fare come quelle donne servizievoli e quei discepoli sorpresi: esplorare con cura quello che succede nella nostra anima, il che ci permetterebbe di renderci conto di come ci siano nelle nostre vite tanti eventi dei quali non ci rendiamo conto e la cui spiegazione più evidente, è che il soffio dello Spirito Santo ci spinge – quasi sempre in modo soave e delicato – a nuovi orizzonti.
È qualcosa di simile ai milioni di reazioni chimiche che hanno luogo nel nostro corpo ogni giorno o all’affascinante e silenziosa produzione di globuli rossi: due milioni di essi per secondo. Sappiamo che questo si realizza e che è qualcosa di necessario per la nostra vita, ma non è sotto il nostro controllo.
L’esperienza della Resurrezione non è solo un ricordo storico dell’evento che celebriamo nella Pasqua, bensì una realtà esistenziale che colpisce la nostra vita quotidiana. Come tante volte ha ricordato il nostro padre Fondatore, si tratta di qualcosa che viviamo qui ed ora, non solo nel futuro. Qualcosa succede in noi:
E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! (Gal 4: 6-7).
Per questo, ci sentiamo inviati ad annunciare con la vita che la luce vince l’oscurità e sentiamo anche che possiamo contagiare gli altri con la speranza. È un impulso a vivere con proposito, con senso, con la certezza di stare servendo un Padre che ci aspetta sempre. Così è avvenuto ai discepoli dopo l’incontro col Risorto.
Dire che il cristiano muore al peccato e nasce ad una nuova vita ( cf. Rm 6, 4), NON È una metafora, bensì la descrizione più esatta della nostra partecipazione alla Resurrezione di Cristo. Egli non aveva necessità di morire al peccato, ma ha vinto la morte. Noi sperimentiamo una distanza dalla forza del peccato, anche se a volte cadiamo; sentiamo che manca un cambiamento profondo, un’autentica resurrezione, anche se non abbiamo presenti, in primo piano nella memoria, nessuna delle nostre mancanze. Il contrasto morte-vita non si limita al momento sublime che oggi celebriamo nella vita di Cristo.
Con alcune parole ben conosciute di San Paolo a Timoteo, San Giovanni Paolo II concludeva così la sua catechesi sulla Resurrezione:
Ricordati di Gesù Cristo, risorto tra i morti: questa affermazione dell’Apostolo ci dà la chiave della speranza nella vera vita nel tempo e nell’eternità (15 Marzo 1989).
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In molte tradizioni, come l’induismo, il Buddismo o certe correnti filosofiche, la reincarnazione si intende come il ritorno dell’anima in un nuovo corpo, in un ciclo ripetitivo di nascite e morti, col fine di purificarsi o raggiungere l’illuminazione. Si potrebbe dire che la credenza nella reincarnazione riflette una ricerca antica ed intuitiva di quella verità più piena che la fede cristiana rivela attraverso la Resurrezione.
Come diceva San Giovanni Paolo II in Evangelium Vitae: L’uomo porta scritto nel suo cuore la speranza della vita oltre la morte. […] La resurrezione di Cristo non risponde solo a quella speranza: la supera infinitamente.
Non dimentichiamo che anche nel cuore di quei giovani, che tante volte definiamo materialisti, individualisti o relativisti, è iscritto questo anelito di eternità, benché possano sembrarci pessimisti o scettici di tutto.
La Resurrezione ci offre una certezza profonda: la morte non ha l’ultima parola. Il cristiano sperimenta pace in mezzo al dolore, perfino di fronte alla morte fisica, perché crede e ha il sapore anticipato, la primizia, che c’è una vita eterna. Questa speranza cambia il suo modo di vivere il presente: non si aggrappa alle cose effimere, ma, in mille maniere, cerca l’eterno.
Se dovessi spiegarlo ad un bambino, lo farei così:
C’era una volta, in un giardino pieno di luce, un piccolo bruco chiamato Nuna. Ogni giorno percorreva le foglie verdi, guardando il cielo ed ascoltando le storie che raccontavano i fiori. Benché il suo mondo fosse piccolo, egli sognava qualcosa di più.
Che cosa c’è oltre queste piante? domandava agli insetti, ma nessuno le rispondeva. Qui stiamo bene, dicevano le formiche. Non c’è altro che rami e vento.
Una farfalla le parlò un giorno con voce soave: Tutto quello che vive in questo giardino ha uno scopo. E se anche ora sei vicino al suolo, un giorno volerai.
Nuna non capiva: Come potrei volare io? Sono piccolo, lento… e vedo appena il cielo tra i rami.
Confida, disse un vecchio rovere. Ora non puoi immaginare quello che succederà. Prima io ero un piccolo seme, ma anche tu cambierai. Non temere.
Passarono i giorni. Arrivò il freddo. Nuna sentì un sonno tanto profondo che l’obbligò a fermarsi. Si aggrappò a un ramo e intrecciò un bozzolo, come se stesse dormendo.
È andato via – dissero i grilli – Era un buon bruco. La sua storia è finita.
Una mattina, quando il sole baciò il giardino, il bozzolo si aprì…e ne uscì Nuna, risplendente. Non era più un bruco, era una farfalla! Con ali di luce, salì al cielo che tanto aveva sognato.
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La Resurrezione non è solo un evento puntuale: è una dinamica quotidiana di morire e rinascere. Ogni volta che il cristiano sceglie di amare, perdonare, allontanarsi dal peccato, confidare in mezzo alla notte… sta sperimentando qualcosa della Resurrezione.
Così lo esprime lo stesso Gesù nella Parabola del Figlio Prodigo: Era morto ed è tornato alla vita; era perduto ed è stato ritrovato. Ogni volta che mi pento con vera coscienza di avere offeso Dio e il prossimo, riconosco che mi sono allontanato dall’amore, ricevo una grazia, affinché si dia in me, non solo un cambiamento di comportamento, ma un cambiamento che possiamo proprio chiamare Resurrezione, rinascita; un’altra cosa è che l’accetti con gratitudine e coerenza.
Non posso parlare della Resurrezione di Cristo, né della mia, se non è visibile nella mia vita un entusiasmo per la missione, una gratitudine per la vita che ho, per i miei talenti (anche se fossero pochi o per niente spettacolari). Alcuni giorni fa ricordavamo in una conversazione come molti dei volontari che ci sono negli ospedali ad assistere malati oncologici, sono proprio antichi pazienti di cancro che sono grati per aver recuperato le loro forze, benché siano minori di quelle che avevano prima. Ma ora, dietro quella “resurrezione” della loro salute, riconoscono il valore di ogni minuto, di ogni occasione di servire, consolare ed incoraggiare gli altri.
In coloro tra noi che desiderano essere apostoli, si deve percepire il nostro entusiasmo e l’attenzione per la missione dei fratelli, per la più piccola opportunità di stabilire una conversazione amabile, col parrucchiere, l’impiegato di un negozio o un vicino. Una persona che NON FA QUESTO, che non ha questo atteggiamento, mi diceva alcuni giorni fa: Non basta essere simpatico e amabile. Può essere, ma è il principio, il segno visibile di chi crede negli altri, non perché gli sembrino perfetti, ma perché sono chiamati ad una vita eterna.
San Filippo Neri era conosciuto per la sua santità… ma anche per il suo grande senso dell’umorismo. Aveva un dono speciale per avvicinare la gente a Dio con un sorriso.
Un giorno, un certo giovane nobile cominciò a sentirsi attratto dalla vita spirituale. Ma aveva anche un piccolo problema: si preoccupava troppo di quello che pensavano gli altri. Andava sempre vestito impeccabile, curava la sua immagine e la sua reputazione con attenzione. San Filippo lo notò. Allora, un giorno, lo chiamò e gli disse:
Vorrei che tu facessi un piccolo atto di umiltà… mettiti questo ridicolo cappello di piume e vai per tutta Roma a fare le tue commissioni.
Il giovane rimase sbalordito. Quello sarebbe uno scandalo! Che vergogna! Ma ubbidì, e imbarazzato, uscì in strada.
La gente rideva, lo additava, ed alcuni perfino lo prendevano per pazzo. Ritornando, San Filippo lo guardò con un sorriso e gli disse: Molto bene. Oggi hai incominciato a morire all’orgoglio e a resuscitare alla libertà del cuore. Perché chi ride di sé stesso, ha già vinto il mondo.
Faccio uno sforzo continuo per avvicinarmi agli altri?
Come disse una volta John Wesley, il fondatore della Chiesa Metodista: La mia parrocchia è il mondo intero! Così pure, in ogni comunità, in ogni parrocchia o centro di lavoro, la nostra cura ed attenzione apostolica non deve essere solo per i cattolici, ma per tutti, credenti o no, quelli che ci precipitiamo a etichettare come “lontani” o “indifferenti”.
Come Maria Maddalena, i discepoli di Emmaús, gli apostoli o perfino San Paolo, dopo il nostro incontro con Cristo Risorto dobbiamo vivere liberi da tutte le paure sul futuro. Dall’essere vigliacci e timorosi dei loro nemici, specialmente delle autorità giudee, essi passarono a proclamare la Buona Notizia anche con coraggio quando stavano per essere perseguitati e rischiavano le loro vite.
Dimostriamo che in questi giorni di Pasqua abbiamo avuto momenti di speciale intimità con Cristo Risorto, che abbiamo condiviso con Lui le nostre vecchie paure e gli abbiamo confidato la nostra disillusione, come i discepoli di Emmaús, i nostri dubbi, come San Tommaso.
In realtà, solo coloro che hanno avuto un incontro rinnovato con Cristo, sono capaci di portare la Buona Notizia. In particolare, raccontiamo, condividiamo le nostre piccole o grandi conversioni, come facciamo noi che abbiamo il privilegio dell’Esame di Perfezione. È qualcosa di urgente, anche se non sempre lo vediamo tanto urgente. Le notizie degli ultimi mesi, le nuove forme di violenza, i conflitti nel mondo, non colpiscono solo le vittime immediate, ma estendono un alone di pessimismo e scoraggiamento da cui nessuno è libero.
Che la nostra allegria pasquale non sia artificiale, bensì frutto di una vera contemplazione di Cristo Risorto.
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Nei Sacri Cuori di Gesù, Maria e Giuseppe,
Luis Casasus
Presidente